Come decidere, giovandosi, un poco scherzosamente, delle decisioni degli altri
di Gian Piero Jacobelli
Non è un momento facile per chi deve decidere, nelle piccole e nelle grandi cose. Siamo assediati dal disordine, dalla incoerenza, dalle contraddizioni di un passaggio, locale e globale, che ci trascina via vorticosamente, senza concedere un momento di pausa per guardarsi intorno, orientarsi, stabilire linee di condotta, trovare un efficace bilanciamento tra istanze tattiche e istanze strategiche, sempre che sia possibile distinguere ancora tra tattica e strategia. Spesso si tende a riassumere questo incessante disagio in una parola, che oggi va molto di moda: complessità. Ma la complessità presuppone un invito a dotarsi di strumenti concettuali più sofisticati, per comprenderla e operare di conseguenza. Al momento, invece, sembra che non ci sia proprio niente da comprendere, se non l’incalzare di eventi prevaricanti, e che ci si debba orientare a vista. Perfino la complessità ci è negata, dal momento che abbiamo innescato feed back di tale portata da impedire qualsiasi controllo delle precarie situazioni in cui ci troviamo immersi, a partire dalla grande crisi finanziaria che, come stiamo vedendo, invece di dare luogo a un circolo virtuoso, ne sta attivando molti altri anche più viziosi.
Di fronte a tali e tante difficoltà decisionali, non tanto per contrastarle, quanto per cercare di farsene una ragione, nel corso del secolo appena concluso sono stati elaborati vari principi «immunitari», che erano espressione di una idea un poco paradossale: è vero che le cose non vanno come dovrebbero, ma è anche vero che, come afferma la famosa legge sulla stupidità umana di Albert Einstein, se «la maggioranza degli sciocchi è invincibile e tutelata per sempre, la loro tirannia è tuttavia mitigata dalla loro mancanza di coerenza». Ciò significa che chi è stupido, lo è due volte: la prima perché lo è, la seconda perché non sa di esserlo, per cui tra l’una e l’altra resta un piccolo margine di speranza che al limite, imprevedibile, ma auspicabile, gli stupidi finiscano per eliminarsi con le proprie mani. Allora, forse, chi avrà saputo mantenere il sangue freddo, chi non si sarà lasciato prendere dalla impazienza, andandosene sbattendo la porta, potrà cogliere al volo l’occasione e farsi avanti o, quanto meno, farsi sentire.
La legge sulla stupidità è stata attribuita a una sorta di determinismo pessimista che, come rilevava Lewis S. Feuer in una nota biografia intellettuale di Einstein, aveva una duplice, paradossale motivazione: quella di sottrarre ai potenti il loro libero arbitrio, riducendoli a strumenti del destino, e quella di ritrovare una logica, anche operativa, in questo destino. Prendendomi qualche licenza, letteraria, s’intende (per esempio, giocando con il mio nome, cosa che non si dovrebbe proprio fare, per non costringere i lettori a discernere tra il soggetto della enunciazione e il soggetto dell’enunciato) vorrei declinare il pessimismo einsteiniano in merito alla stupidità umana in un semplice criterio di azione che ho denominato il Principio di Jacob e che, aiutando a pensare meglio, lasci però tutti liberi di pensarla come vogliono, altrimenti il criterio stesso non potrebbe funzionare.
Non sfuggirà a nessuno, almeno a nessuno che affondi profondamente le proprie radici nel secolo scorso, come il Principio di Jacob si richiami a quel Principio di Peter che fece tanto discutere alla fine degli anni Sessanta (l’anno scorso ne è stato celebrato il quarantennale). Secondo il suo autore, lo psicologo canadese Laurence J. Peter, le organizzazioni sarebbero concepite in modo che tutti giungano al proprio livello d’incompetenza, là dove li sospinge la loro capacità di fare proprio quelle cose che, da quel momento in avanti, non dovranno più fare. Forse, nel Principio di Peter sventolava implicitamente la bandiera della «immaginazione al potere», in cui si era negli stessi anni riconosciuta la contestazione studentesca. Il Principio di Jacob implica minori pretese palingenetiche, anzi tende a rimuovere ogni condizionamento ideologico, che renderebbe impraticabile il guicciardiniano perseguimento del proprio «particolare». Tuttavia, non manca di aulici riferimenti, nella misura in cui allude esplicitamente al biblico capostipite del popolo di Israele, Giacobbe, che, come è noto, combatté tutta una notte contro l’angelo, senza ovviamente venirne a capo, e solo al mattino, quando si rese conto con chi aveva a che fare, dopo avere perduto l’uso di una gamba, smise di combattere e acquistò insieme un nome e un destino: come dire che, se non c’è niente da fare, tanto vale non farlo, perché, prima o dopo, lo faranno gli altri.
Dunque, in cosa consiste questo benedetto Principio di Jacob? In sintesi, così potrebbe venire formulato: «Sono più i problemi che si risolvono da soli, di quelli che si possono risolvere da solo». Certo, come nel caso del principio di Peter, si potrebbero adottare anche altre formulazioni; per esempio: «Si possono fare molte più cose, se non ci si dà da fare». Ma la prima formulazione presenta almeno tre assunzioni, che mi sembrano significative. La prima, non scontata, è di tenere conto degli altri: nessuno vive solo, ma, nonostante i ripetuti richiami evangelici, molti continuano a preferire le relazioni «verticali», ottriate, a quelle «orizzontali», obbligate. La seconda, forse meno esplicita, è di non perdere di vista i propri interessi, che rappresentano l’unico fattore unificante di una condizione in cui la forma fluens sembra farla da padrona, anche se invece troppi sono i pretesi o pretendenti padroni. La terza è quella di prendere atto che nella vita tutti hanno i loro problemi e questa problematicità possiede tanto un valore conoscitivo quanto un valore etico, nel senso di una discriminante confluenza sulle cose che contano. Per esempio, poiché tutti tendono a fare più di quanto possono, non ci si deve preoccupare di intasare la propria agenda, perché ci penseranno gli altri a fare posto, sottraendosi tempestivamente. Appuntamenti con persone diverse alla stessa ora, impegni a scadenze ravvicinate: nessuna paura, qualche tempestiva telefonata ci avvertirà che non si può fare e resterà solo un modo di dire, utile a conciliare simpatie e a consolidare amicizie. Ma c’è di più: anche sul piano delle comunicazioni di lavoro il Principio di Jacob può suggerire comportamenti proficui. Per esempio, perché sgolarsi e rivelare tutte le proprie carte, cercando di prendere la parola per primo? Meglio stare ad ascoltare cosa hanno da dire gli altri e, alla fine, riservarsi un ruolo conclusivo e concludente.
In questo senso, il Principio di Jacob implica una linea di azione buona per molti impieghi, come il celebre coltello di Delfi, che Aristotele criticava, perche «la natura destina gli strumenti a una sola funzione» (Etica Nicomachea). Salvo poi stabilire, aristotelicamente, che la cultura è tale proprio perché comporta diverse funzioni strumentali. In effetti, o si è convinti che la verità sia una e una volta per tutte, oppure tanto vale arrivare per primi non alla verità ultima, ma a quella che viene dopo le altre, almeno per il momento, in attesa di quelle che verranno in altre circostanze. Da questo punto di vista, a differenza di quanto si potrebbe pensare, il Principio di Jacob non fa a pugni con la realtà, non ne trascura i condizionamenti e, tanto meno, ne prescinde. Al contrario è un principio di convenienza, nel senso etimologico del termine: un principio che adduce come presupposto l’essere in situazione, il vivere la situazione come una seconda pelle, il lasciare che tutto avvenga in maniera partecipe e partecipata.
Traendo dalle teorie utilitaristiche – da Bentham e dai suoi seguaci – la massimizzazione del risultato, che significa ancora una volta la rinuncia a qualsiasi aspettativa radicalizzante a favore di una ragionevole mediazione tra ciò che si vuole e ciò che si può avere, il Principio di Jacob costituisce una guida nell’esplorazione degli interessi confluenti, piuttosto che dei valori contrapposti. Se il valore fa riferimento a un sistema assiologico, in qualche modo eteronomo, l’interesse punta esclusivamente a trasformare la convivenza in una struttura anamorfica, in ragione dei punti di vista in cui dialetticamente si riconoscono i diversi soggetti collettivi, come avrebbero detto Alexis de Toqueville o William James. Ciò tende a provocare una incessante destabilizzazione dei sistemi di potere, non più assoluti, ma relativi al qui e ora, ai diversi modi di vedere il mondo e le sue implementazioni storiche e culturali.
Proprio la storia politica più o meno recente – e non sorprende, considerato come la politica, quando ha poco di concreto da dire, quando si vergogna di quanto dovrebbe dire, ricorra frequentemente alla metafora, con una capacità creativa che trova pochi riscontri anche nei poeti barocchi – ha suggerito una parola chiave, quella di «desistenza», che sta a cavallo tra l’assenza, il rifiuto pregiudiziale di partecipare, senza dubbio estraneo al Principio di Jacob, e la resistenza, la contrapposizione a oltranza, altrettanto non congeniale alla idea di un coinvolgimento elastico e negoziale con la realtà.
L’immunologia può dare un’idea di quello che intendo: se aggredito, in un virus finiscono per venire selezionati dei ceppi resistenti e quindi è meglio non aggredirlo, almeno non direttamente, ma aggirarlo, irretirlo senza che se ne accorga; non ucciderlo, ma impedirgli di vivere. Emanuele Severino, in La strada, a proposito di alcune riflessioni di Carl Gustav Jung sulla saggezza orientale, ricorda l’antichissima formula di Lao Tsu, «wu wei», l’azione nella non azione: non costruire progetti che pretendono di dominare gli eventi, ma essere psicologicamente predisposti a lasciarli accadere. La critica di Severino, secondo cui ogni esercizio è l’opposto del lasciare che gli eventi accadano, mi consente di ribadire la differenza del Principio di Jacob da ogni norma, antica o moderna, di passività. L’obiettivo non è quello di un mero atteggiamento di attesa che tenda a fare il vuoto dentro di sé, per trovarsi preparato ad accogliere qualunque cosa si presenti: è evidente che in questo modo non potrebbe emergere disegno alcuno, ma soltanto variazioni sul tema. Il Principio di Jacob, al contrario, chiede di compromettersi dall’inizio, in maniera che ogni ricezione innovativa sia determinata e determinante. E, se proprio ci si vuole rifare alla saggezza orientale, meglio seguire le indicazioni di un grande poeta cinese del III secolo d.C., Lu Ji, il quale consigliava di «permettere alle emozioni di essere sottili», adattandosi «alle occasioni quando esse si presentano».
«Aiutati, che Dio ti aiuta», dice il proverbio, ma anche i proverbi possono sbagliare, anzi per lo più sbagliano proprio perché sono l’espressione di una inconsapevole prevaricazione, che intende sostituire le parole ai fatti. Se ti aiuti mentre Dio ti aiuta, non puoi che fare confusione. La sapienza popolare, nel suo millenario sforzo di riscattarsi dall’impotenza quotidiana, ha teorizzato una sorta di vigile rassegnazione, che si fa debole della sua forza. Invece il Principio di Jacob afferma che ci si può fare forti della propria debolezza e trasformare in debolezza la forza dell’avversario: perché ci si può sottrarre al gioco, facendo finta di giocarlo e contando sul fatto che in ogni situazione poche sono le mosse a disposizione, per cui, se si lascia che l’altro le giochi tutte, dovrà alla fine accettare di cambiare il suo gioco nel nostro gioco.
Il tempo che ci assedia, il tempo che non ci lascia tregua: tutte metafore di una guerra perduta, che solo Jacob può vincere, perché in realtà l’ingaggio con il tempo è come quello con l’angelo, che toglie il respiro, ma deve durare. Lasciare che sia il tempo a fare, non vuole dire che non ci sia nulla da fare. Vuole dire che c’è un tempo per ogni cosa, ma se non si sa quale, bisogna evitare di farsi travolgere dalla infinità degli attimi fuggenti. Per attendere quello che Aristotele chiamava kairos, il momento opportuno per affrontare la prova.