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    Il pensiero scientifico nelle imprese

    Più che della tecnologia, le imprese hanno bisogno del metodo scientifico

    Nel corso della storia, innovazioni negli strumenti – il microscopio, il telescopio e il ciclotrone – hanno più volte rivoluzionato la scienza migliorando la capacità degli scienziati di misurare il mondo naturale. Ora, con la crescente dipendenza degli umani da piattaforme digitali quali la rete e le app, la tecnologia sta efficacemente “attrezzando” anche il mondo sociale. Il conseguente diluvio di dati ha implicazioni rivoluzionarie non solo per la scienza sociale ma anche per le decisioni delle aziende.

    Al crescere dell’entusiasmo per i “big data”, gli scettici avvertono che un’eccessiva fiducia nei dati può avere conseguenze. I dati possono essere parziali e sono quasi sempre incompleti. Possono portare i decisori a ignorare informazioni più difficili da ottenere, o a sopravvalutare le informazioni a loro disposizione. Gestendo quanto abbiamo misurato, il rischio è quello di non notare quello che è veramente importante – come accadde al Segretario della Difesa Robert McNamara quando si affidò eccessivamente all’infimo body count ai tempi del Vietnam, e come fecero i banchieri prima della crisi finanziaria del 2007-2009 affidandosi troppo ai modelli quantitativi.

    Molte delle decisioni con gli effetti più importanti offrono una sola possibilità di riuscita.

    Gli scettici hanno ragione a sostenere che un affidamento sregolato sui soli dati può rivelarsi problematico. La stessa cosa può essere detta, però, nel caso di un’eccessiva fiducia nell’intuito o nell’ideologia. Per ciascun Robert McNamara esiste un Ron Johnson, il CEO il cui disastroso controllo della JC Penney fu caratterizzato dal rifiuto di dati e prove a favore dell’istinto. Per ciascun modello statistico inefficace, esiste un’ideologia difettosa la cui inflessibilità porta a catastrofici risultati.

    Visto che sia i dati, sia l’intuito, sono inaffidabili, cosa dovrebbe fare un decisore responsabile? Per quanto non esista una risposta corretta a questa domanda – il mondo è troppo complesso perché una semplice ricetta possa essere applicata a tutto – credo che i capi in una vasta gamma di contesti potrebbe beneficiare da un sistema decisionale scientifico.

    Una mentalità scientifica si ispira al metodo scientifico, al cui centro sta una ricetta per l’apprendimento del mondo in maniera sistematica e ripetibile: si parte da qualche domanda generica basata sulla propria esperienza; si formula un’ipotesi che permette di risolvere il puzzle e genera una previsione confrontabile; si raccolgono dati per testare le previsioni e, infine, si valuta la propria ipotesi in rapporto con altre ipotesi rivali.

    Il metodo scientifico è ampiamente responsabile della sorprendente espansione nella nostra comprensione del mondo naturale negli ultimi secoli. Eppure, il suo ingresso nel mondo della politica, dell’impresa, dell’etica e del marketing – dove la nostra prodigiosa intuizione sul comportamento umano è in grado di spiegare perché le persone fanno ciò che fanno o portarle a compiere azioni differenti – è finora lento. Data l’attendibilità di queste spiegazioni, la nostra tendenza naturale è quella di agire sulla loro base senza ulteriori considerazioni. Abbiamo appreso qualcosa dalla scienza, però, che la spiegazione più plausibile non è necessariamente corretta. L’utilizzo di un approccio scientifico per prendere le decisioni ci porterebbe a collaudare le nostre ipotesi con dati.

    Sebbene i dati siano essenziali per le decisioni scientifiche, teoria, intuizione, e immaginazione sono importanti a loro volta – anzitutto per generare delle ipotesi, immaginare test creativi e interpretare i dati che raccogliamo. I dati e la teoria, in altre parole, sono lo Yin e lo Yang del metodo scientifico – la teoria inquadra le domande giuste, mentre i dati rispondono alle domande poste. L’enfasi di una a scapito dell’altra può portare a gravi errori.

    Anche la sperimentazione è importante. Con essa non intendo il “provare cose nuove” o “l’essere creativo”, ma il ricorrere a esperimenti controllati per provocare effetti casuali. Nel business osserviamo principalmente la correlazione – facciamo X e succede Y – ma spesso quello che ci interessa è scoprire se X ha provocato Y o meno. Quante nuove unità del vostro prodotto sono andate vendute in seguito alla vostra campagna promozionale? Un’estensione dell’assistenza sanitaria porterà a un incremento o a una diminuzione delle spese mediche? La semplice osservazione della conseguenza di una particolare scelta non risponde a domande casuali del genere: dobbiamo osservare la differenza tra le scelte.

    Non è facile replicare in contesti politici o professionali le condizioni di un esperimento controllato, ma sempre più spesso stiamo riuscendovi in esperimenti sul campo, in cui i compiti vengono assegnati casualmente a diversi individui o comunità. Il Poverty Action Lab del MIT, ad esempio, ha condotto più di 400 esperimenti sul campo per meglio comprendere la distribuzione degli aiuti, mentre gli economisti hanno utilizzato esperimenti simili per misurare l’impatto delle pubblicità online.

    Sebbene gli esperimenti sul campo non siano un’invenzione dell’era di Internet – test randomizzati sono uno standard della ricerca medica da decenni – la tecnologia digitale li ha resi più pratici da implementare. Così, mentre aziende quali Facebook, Google, Microsoft e Amazon continuano a beneficiare da dati, scienza e sperimentazione, le decisioni scientifiche si diffonderanno maggiormente.

    Ciononostante, esistono dei limiti sulla scientificità delle decisioni. A differenza degli scienziati che godono del lusso di poter sospendere un giudizio fino a quando una quantità sufficiente di prove non è stata accumulata, i regolatori o i capi delle imprese devono spesso agire in condizioni di parziale ignoranza. Sono state prese scelte strategiche, implementate norme, assegnate ricompense o colpe. Per quanto una persona possa tentare di basare le proprie decisioni rigorosamente, una certa quantità d’intuito sarà sempre necessaria.

    L’estremizzazione di questo problema è che gran parte delle decisioni più importanti offre una sola occasione di riuscita. Non si può entrare in guerra con una metà dell’Iraq e non l’altra per scoprire quale delle due avrebbe funzionato meglio. Allo stesso tempo, non si può riorganizzare un’azienda in più modi per poi scegliere quello migliore. Ne consegue che potremmo non sapere mai quali piani buoni hanno fallito e quali piani cattivi hanno avuto successo.

    Persino qui, però, il metodo scientifico è istruttivo, non tanto per le risposte date, quanto per l’aver evidenziato i limiti di quanto potevamo apprendere. Non possiamo fare a meno di chiederci perché Apple ha avuto tanto successo, o cosa ha provocato l’ultima crisi finanziaria, oppure perché “Gangnam Style” è stato il video più virale di tutti i tempi. Non possiamo neppure evitare di elaborare delle risposte. Nei casi in cui non possiamo testare più volte le nostre ipotesi, il metodo scientifico ci insegna a evitare di dedurre troppo da un risultato qualunque. Alle volte, la sola risposta vera è che semplicemente non sappiamo.

    Alcuni possono ritenere questa conclusione deprimente, ma una mente scientifica dovrebbe sempre dubitare di quello che conosce. Dovrebbe dubitare dei dati, ma anche delle spiegazioni possibili, della conoscenza comune, delle ideologie, degli aneddoti e, soprattutto, del proprio intuito. Il risultato non dovrebbe essere una paralisi totale, ne’ un’adesione servile ai dati, ne’ una esclusione della creatività o dell’immaginazione. Semmai, dovrebbe portarci a un mondo più razionale e basato sulle prove.

    Duncan Watts è un ricercatore principale di Microsoft Research e autore di “Everything is obvious: How common sense fails us“.

    Camillo Olivetti

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