Quando qualche cosa finisce si può pensare che ne debba iniziare un’altra, anche se non si sa come: questo è il significato prevalente della nozione di “singolarità” che caratterizza ogni ipotesi relativa alla crescita esponenziale della tecnologia e in particolare della Intelligenza Artificiale.
Qualche anno fa, Sundar Pichai, allora CEO di Google e poi di Alphabet, nello scusarsi per gli scandali che avevano colpito la sua azienda, affermò che “la tecnologia non risolve i problemi dell’umanità”. Allora qualcosa si ruppe nel mito delle leopardiane “magnifiche sorti e progressive”, che nella mitologia tecnologica si corredavano della promessa non soltanto di una vita comunque migliore, ma soprattutto della possibilità di sconfiggere addirittura la morte.
Commentando l’ultimo fascicolo del 2022 di “MIT Technology Review” USA, dedicato appunto alla morte e ai tentativi sempre più metaforici di sfuggirle (dove il richiamo “metaforico” sta a indicare una sorta di “salto della quaglia”, di scarto concettuale, vale a dire di soluzioni che in realtà si propongono non tanto di sconfiggere la morte, quanto di proiettare la vita oltre la morte in forme più o meno surrogate), abbiamo già avuto modo di rilevare come proprio la morte rappresenti l’autentica, inevitabile, ma paradossalmente innovativa “singolarità” della vita: “quel fatale e prescritto momento che ci diremo addio”, per riprendere i bellissimi versi con cui Vincenzo Cardarelli rifletteva in poesia sulla drammatica caducità di ogni relazione, che tuttavia consente di comprendere fino in fondo cosa siamo e cosa veramente vogliamo.
In questa prospettiva di una fine che può conferire un senso compiuto a quanto è stato, nella misura in cui prelude a quanto sarà, non dovremmo chiederci, come invece stiamo vanamente facendo ormai da alcuni decenni, se la tecnologia possa provocare la fine del mondo, quanto meno del mondo come lo conosciamo, quasi che la tecnologia stessa costituisca un fattore esterno a quel mondo, in grado di aggredirlo surrettiziamente e metterlo in crisi. Tipica a questo proposito la preoccupazione, a nostro avviso del tutto fantasiosa, se non addirittura farisaica, che la cosiddetta Intelligenza Artificiale possa prendere il sopravvento sui suoi creatori, asservendoli a una logica operativa non più soggetta a criteri condivisi di valore e quindi estranea ai principi fondamentali di un vivere insieme equilibrato e responsabile.
Piuttosto dovremmo ribadire che la tecnologia, a cui da sempre è stata attribuita la funzione di rendere la vita più facile e più degna di essere vissuta, rappresenta la fondamentale infrastruttura portante della società contemporanea, in quanto intride ormai tutti gli aspetti di una quotidianità tanto più praticabile quanto più tecnologicamente adeguata e pertinente, alla stregua dei gesti necessari alla sopravvivenza e delle parole necessarie alla convivenza. Proprio in ragione di questa pervasività, concettuale e operativa, quale si esprime in particolare nella proliferazione generalizzata dei sistemi di rete, la nozione di “fine”, della tecnologia o del mondo o della vita, acquista una peculiare torsione semantica, in cui fine e inizio sembrano inaspettatamente coincidere.
I futurologi, almeno quelli che non pretendono di prevedere il futuro, ma soltanto di capire quando il presente ha fatto il suo tempo, la definiscono “singolarità”: quel punto distintivo di un fenomeno in progressiva crescita; quella soglia oltre cui non si riesce più a ipotizzare l’andamento del fenomeno stesso. Per esempio, l’autorevole informatico Raymond Kurzweil, sul modello della celebre Legge di Moore relativa alla complessità dei circuiti integrati, prefigurava una crescita esponenziale delle principali tecnologie contemporanee, che porterebbe alla predetta singolarità, realizzando un radicale “cambiamento di paradigma”, in ragione di cui, per così dire, si ripartirebbe da zero, o meglio da un “nuovo zero”, posizionato diversamente da quello di partenza.
Naturalmente nessuno può davvero prevedere quando si dovrebbe arrivare a una evidente e riconoscibile singolarità, anche se alcuni non rinunciano a spingersi anche più in là, facendo leva sull’ipotetico sviluppo di una “intelligenza superumana” in grado di reperire al proprio interno le risorse di metodo e di merito per potenziarsi ulteriormente, superando volta a volta sé stessa, in aggiunta alle intelligenze la hanno preceduta.
A proposito dell’attuabilità di una tale straordinaria singolarità tecnologica, concernente gli eventuali limiti di una intelligenza che si auto-genera, ci limitiamo a fare riferimento alle problematiche considerazioni di un noto cosmologo inglese, Martin Rees, il quale sostiene che il cervello umano costituirebbe sul piano evolutivo il limite massimo della capacità di sviluppare concetti intelligenti perché, continuando ad aumentare, le informazioni intercorrenti tra le sinapsi impiegherebbero troppo tempo per produrre ragionamenti esaurienti e originali, dovendo limitarsi all’accrescimento e all’ordinamento della memoria a lungo termine.
Anche se in maniera del tutto schematica, Rees sostiene che un cervello grande il doppio di quello umano immagazzinerebbe il doppio dei dati disponibili, ma al doppio del tempo e alla metà della velocità di elaborazione, rendendone di fatto negativi i progressi. Analogamente, anche i sistemi informatici evoluti soccomberebbero a un fatale limite fisico, oltre cui le relative velocità di elaborazione decadrebbero rapidamente, generando più un deleterio ingorgo quantitativo che l’auspicato incremento qualitativo.
Senza volerne valutare la ipotetica e senza dubbio discutibile attendibilità scientifica, queste considerazioni ci sembrano interessanti soprattutto in ordine alla emergenza di una nozione doppiamente ambivalente di “limite”: da un lato il limite oltre cui non si può andare o quanto meno non si può sapere dove si stia andando; dall’altro lato il limite il cui perseguimento può “fare la differenza”, lasciando intravvedere al tempo stesso il senso del percorso compiuto e il senso del percorso da compiere per non lasciarsi irretire dal limite del limite.
In questo caso, per altro, va conclusivamente specificato come “senso” non voglia significare “direzione”, in cui si configurerebbe una disorientante contraddizione in termini, se è vero, come è vero, che il senso comporta un “dare senso”, mentre la direzione comporta un “avere senso”. Il passo, molto lungo e forse altrettanto insidioso, tra l’avere senso e il dare senso richiede, in ogni caso, una determinata e determinante assunzione di responsabilità nell’orizzonte degli eventi e persino il paradosso creativo di un futuro che va fatto essere diverso da come sarebbe stato prevedibile.
(gv)