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    Il museo come forma nel tempo

    La recente inaugurazione del Museo dell’Opera del Duomo di Firenze offre una preziosa occasione per riflettere sui rapporti tra le ragioni della fede, quelle della politica e quelle della tecnologia.

    di Giordano Ventura

    Un museo non è soltanto una raccolta di opere d’arte, anche se sulle opere d’arte, soprattutto quando eccezionali, si sofferma in modo particolare l’attenzione dei visitatori. Un museo è anche un modo assai significativo per verificare, nel corso della storia, le molteplici relazioni tra le diverse tecniche del fare e i diversi orientamenti del gusto. Tra tecnologia ed estetica intercorrono infatti relazioni evidenti, tanto più interessanti per una cultura come quella contemporanea in cui il design, cioè la stringente connessione tra forma e funzione, ha assunto un valore preminente e largamente condiviso.

    Tali considerazioni trovano un riscontro particolarmente significativo in un museo che proprio al concetto di “opera” s’intitola, dove per “opera” s’intende appunto il secolare dialogo tra le visioni del mondo, la propensione per il bello e le condizioni di un impegno realizzativo a cavallo tra capacità tecnologiche e risorse economiche. Questo è il caso del museo dell’Opera del Duomo di Firenze, inaugurato recentemente dopo uno straordinario lavoro di ristrutturazione architettonica e culturale, dove, tra i capolavori di Arnolfo, Ghiberti, Donatello, Luca della Robbia, Pollaiolo, Verrocchio, Michelangelo, si può scoprire la maggiore concentrazione di scultura monumentale fiorentina: statue e rilievi in marmo, bronzo e argento dei maggior artisti medievali e rinascimentali, per lo più realizzati per le strutture ecclesiastiche che ancora oggi sorgono davanti al Museo: il Battistero di San Giovanni, la Cattedrale di Santa Maria del Fiore, il Campanile di Giotto.

    E si possono scoprire anche gli aspetti progettualmente più interessanti di quegli straordinari edifici, in cui confluiscono, accanto ai “dati” della fede, quelli della storia e quelli della tecnologia.

    In effetti, la facciata del Duomo di Firenze ha richiesto quasi seicento anni per venire completata: dal primo progetto di Arnolfo di Cambio, della fine del Duecento, a quello conclusivo di Emilio De Fabris, della fine dell’Ottocento. In mezzo una molteplicità di progetti di completamento e di rifacimento, che si moltiplicano alla fine del Cinquecento, con la Controriforma, a conferma delle problematiche nel cui ambito il “saper fare” deve confrontarsi con il “poter fare”.

    I raffinati modelli lignei di questi progetti per la facciata del Duomo di Firenze si conservano nel magnifico Museo dell’Opera del Duomo, costituendo uno dei gruppi più spettacolari tra i numerosi esempi di questo genere conservati in Italia e in Europa. Eseguiti nel corso di cinquant’anni, tra il 1587 e il 1635, come espressione di una prassi progettuale che si basa preferibilmente sui modelli tridimensionali rispetto a quelli grafici, raccontano il rapporto controverso e complesso tra i linguaggi artistici e quelli del controllo politico e sociale.

    La vicenda della nuova facciata del Duomo di Firenze ha inizio con Francesco I de Medici, il quale nel 1587 ordina la distruzione del rivestimento marmoreo medioevale, disegnato da Arnolfo di Cambio e solo parzialmente realizzato tra il 1296 e gli inizi del secolo successivo. Francesco I incarica del progetto Bernardo Buontalenti, l’architetto di corte tra i più originali del tardo Cinquecento italiano.

    Con la morte inaspettata di Francesco I, le vicende della facciata si complicano e si arenano fino alle seconda metà dell’Ottocento. Intorno ai vari progetti per il completamento della facciata del Duomo di Firenze si sono dunque scontrati, tra Cinquecento e Seicento, esponenti del potere civile e religioso, progettisti e cortigiani, amministratori e accademici, nel contesto di una ancora embrionale opinione pubblica. Come in altri grandi cantieri italiani, anche il dibattito relativo alla facciata fiorentina ha così contribuito alla riflessione, teorica e pratica, sul rapporto tra tradizioni estetiche e innovazioni tecnologiche.

    Nella prospettiva di questi veri e propri capolavori di ebanisteria architettonica, Santa Maria del Fiore si propone, quindi, come una forma nel tempo, che rappresenta virtualmente la interminabile e intricata dialettica tra affermazioni di fede e affermazioni di gusto.

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