Riflessioni sull’intelligenza artificiale
“Ho capito“, ha risposto uno degli studenti più attenti di un corso universitario dedicato all’etica della comunicazione, in cui si era cercato di rimuovere alcuni luoghi comuni della presunta oggettività per prospettare la complessità non come la fine, ma come l’inizio della parola. “Ho capito che bisogna spostare sempre più in alto il punto di vista, passare dal sistema al sistema dei sistemi, dalla regola alla regola delle regole e via dicendo“.
In effetti, spostando sempre più in alto il punto di vista il problema non si semplifica, ma si complica ulteriormente, in quanto a ogni spostamento rientra in gioco il problema della qualità. Il processo metalinguistico non fa che caricare il senso di nuovi significati: una cosa è affermare che una penna serve per scrivere, un’altra cosa è dire che oggi si scrive con la penna quando si vuole personalizzare un messaggio, un’altra cosa è dire che sono rimasti in pochi a scrivere con la penna e un’altra cosa ancora è dire che solo con la penna si può scrivere alla donna che si ama.
Ma non basta: nell’ultimo caso succede qualcosa di molto particolare, qualcosa di poetico, come rilevava Roman Jakobson, un grande linguista che studiò appunto i meccanismi espressivi della poesia. Per dirla in breve, la poesia mette in moto i valori: il bello e il brutto, il buono e il cattivo, il giusto e l’ingiusto, che prima si contrappongono in una visione statica del mondo, dopo scendono dal proprio piedistallo, entrano in campo aperto, diventano personaggi di uno specifico conflitto, intessono una vicenda che si esprime nel racconto delle loro gesta.
Per questo motivo si dice che la vita, tutta la vita, è fatta di racconti: perché quando viviamo in funzione di un valore da affermare, di un obiettivo da raggiungere, di una identità da conseguire, in realtà non facciamo che raccontare una vicenda in cui prima eravamo diversi da come saremo dopo. E questa vicenda è indispensabile per comprendere in qualche modo cosa è successo.
In questo tempo che sembra sempre correre verso la fine o l’inizio di qualcosa, per essere bisogna divenire, come avrebbe detto il grande Aristotele. Più si ascende lungo la interminabile scala del senso, più si allarga l’orizzonte, più la visione si fa complessa e, soprattutto, non si allontana, ma si avvicina alla vita. Anzi, alla morte.
Raccontare significa sempre mettersi dal punto di vista della morte: quel “vissero felici e contenti“, con cui si conclude ogni vecchia favola, in realtà allude a una vita che assomiglia alla morte, perché non può più cambiare. Questo è il paradosso: la vita può riempirsi di senso solo nella prospettiva della morte; è la morte, o quanto meno l’ipotesi della morte, che da senso alla vita, che consente di scriverla e riscriverla, come avrebbe detto Jacques Derrida.
Tutto questo discorso per dire che c’è qualcosa che non convince nella provocatoria intervista con Jeff Hawkins che si pubblica nella pagina accanto e che fa programmatico riferimento alla “consapevolezza di essere vivi“. Come si è detto, questa consapevolezza comporta proprio l’impossibilità di dire ciò che siamo, perché finché siamo vivi non sappiamo, non possiamo sapere cosa veramente siamo.
Basta ricordare a questo proposito che proprio il padre dell’informatica, Alan Turing, l’inventore della cosiddetta “camera nera”, affermò che il problema delle macchine intelligenti non è quello di imitare i meccanismi dell’intelligenza umana, ma quello di apparire intelligenti. Un problema più ancora che operazionale, relazionale, nel senso che l’unico riconoscimento possibile di una intelligenza artificiale è quello connesso al concreto riconoscimento, da parte di una intelligenza umana, di un’altra intelligenza umana. Quindi non conta il riferimento a qualcosa che si ponga al di là dei due interlocutori – una situazione, una realtà, un mondo -, ma conta il riferimento a qualcosa che concerne l’interlocuzione in quanto tale.
Al contrario, Hawkins sembra convinto che “io percepisco il mondo in un dato modo perché quello è il modo in cui il mondo effettivamente è“. In altre parole, la sua “teoria globale del funzionamento del cervello umano” si fonda sulla capacità del cervello stesso di prevedere qualcosa che avviene indipendentemente dal suo essere percepito. Non a caso, questo ancoraggio referenziale dell’intelligenza umana, che dovrebbe costituire il presupposto per “creare un mondo senziente in grado di rilevare a livello percettivo ciò che l’uomo non riesce a vedere e prevedere perché il suo grado di evoluzione non è ancora sufficiente“, si traduce in una petizione di principio sulle facoltà del proprio e dell’altro. Per esempio dei delfini, che “hanno delle percezioni ricchissime, ma non possono comunicarsele“: e allora, come avrà fatto a saperlo?
In effetti, si può dire dell’uomo di Hawkins quello che Hawkins dice dei delfini: che “possono solo nuotare”, come se la vita non fosse qualcosa che crea insieme se stessa e il suo ambiente. Senza cadere dalla padella della fisica alla brace della metafisica, in una prospettiva rigorosamente etica non si può non ricordare Pierre Teilhard de Chardin, il celebre “gesuita proibito”, quando invitava a spostare l’attenzione da “un mondo che è” a “un mondo che nasce”. Purché sia chiaro che il “mondo che nasce” non è se non un modo, l’unico modo, di parlare del “mondo che è”; anzi, che noi siamo. (gpj)