In un momento come l’attuale, difficile sotto molti aspetti, sanitario, energetico, economico, politico, le vacanze potrebbero rappresentare una buona occasione per tornare a riflettere su diversi, meno complicati e meno divisivi modelli di vita.
Come ogni contrattempo – non qualcosa che ci ostacola, ma un altro tempo, un breve intervallo tra un modo di essere e lo stesso modo di essere, che ci consente di comportarci almeno per un poco diversamente – le vacanze estive, tra le tante ricercate distrazioni, comportano anche qualche implicito momento di consapevolezza, connesso ai cambiamenti di abitudini, a un approccio inconsueto al mondo circostante.
Per tornare subito ai nostri interessi prevalenti, che sono quelli delle soluzioni scientifiche e tecnologiche per i problemi posti appunto dal mondo circostante, più o meno allargato, ma volta a volta circostante, il senso di queste nostre riflessioni concerne oggi le cosiddette “tecnologie intermedie”: un termine forse ambiguo, ricco di significati, talvolta persino apparentemente contrastanti, reso però particolarmente attraente e suggestivo proprio da quella condizione “intermedia” in cui si esprime tanto il rifiuto di ogni eccesso quanto la impegnativa idea che le cose siano comunque in connessione tra loro.
Di tecnologie intermedie per la verità si parla ormai da circa mezzo secolo, da quanto l’economista tedesco, migrato in Inghilterra per sfuggire ai nazisti, Ernest Fritz Schumacher, poi allievo e collaboratore di John Maynard Keynes, propose, con riferimento ai territori d’oltremare dell’impero coloniale inglese e sulla scorta delle concezioni di sviluppo del Mahatma Gandhi, l’adozione di tecnologie appropriate alle situazioni locali. Queste tecnologie avrebbero dovuto essere abbastanza economiche da risultare accessibili a chiunque ne avesse bisogno; adatte a una applicazione su piccola scala; compatibili, infine, con la istanza di creatività insita in ogni essere umano, vale a dire tali da non risultare estranee e impraticabili, ma anzi da sollecitare interventi migliorativi e impieghi alternativi.
Nel 1966, insieme ad alcuni amici, Schumacher fonda l’Intermediate Technology Development Group, il Gruppo per lo Sviluppo delle Tecnologie Intermedie, che lavora ancora oggi in molte parti del mondo, in particolare in Perù, Kenya, Sudan, Zimbabwe, Sri Lanka, Bangladesh e Nepal. Quindi, nel 1973, pubblica Small is Beautiful. Economics as if People Mattered, il libro che gli diede fama internazionale e che contribuì a conferire alla tecnologia uno statuto più problematico, ma anche più responsabile di quanto non fosse stato nella prima metà del secolo.
Ne scaturirono molte iniziative di ricerca e di promozione in tutto il mondo. Alcune anche italiane, per esempio del Politecnico di Torino, dove da anni opera un Centro di ricerca in tecnologia, architettura e urbanistica per i paesi in via di sviluppo.
Tra le iniziative internazionali vogliamo ricordare, perché ne abbiamo a suo tempo spesso parlato sulla nostra rivista, la One Laptop for Child, una organizzazione non profit creata, per portare avanti il progetto del computer (laptop) da 100 dollari, da Nicholas Negroponte, fondatore e storico direttore del MIT Media Lab di Boston. I computer di Negroponte erano basati su un processore low cost, venivano alimentati da una batteria interna ricaricabile con una manovella e, in particolare, usavano programmi open source, che garantiscono la libertà di eseguire, modificare e adattare i programmi stessi. L’obiettivo era quello di fornire a ogni bambino del mondo, specie a quelli nei paesi depressi, un accesso alla conoscenza e alle moderne forme educative, capaci di farli passare dal digital divide alle digital opportunities.
Ma il riferimento iniziale e solo apparentemente occasionale alle vacanze estive ci consente infine di sottrarre la nozione di tecnologie intermedie all’iniziale destino di sottosviluppo, per coglierne invece la portata più generale, oltre la quasi proverbiale convinzione che “piccolo è bello”. Non si tratta soltanto di tecnologie in grado di soddisfare i bisogni delle persone senza ricorrere necessariamente e a caro prezzo a dispositivi di ultima generazione. Si tratta piuttosto di riuscire, magari anche indotti dalle circostanze non del tutto favorevoli, a concepire e implementare le diverse e possibili combinazioni di lavoro umano e strumentazioni tecnologiche, che tengano conto della configurazione organizzativa e dell’ambiente in cui avviene il processo in questione, di produzione o di consumo. Ma soprattutto si tratta di tecnologie che, invece di dividere chi le gestisce da chi ne fa uso, chi le possiede da chi deve procurarsele, chi le conosce da chi le percepisce come corpi estranei, possano variamente agevolare e supportare la vita in comune. Non a caso si parla di tecnologie intermedie a proposito di case, cibo, acqua, energia: in altre parole, delle funzioni vitali del nutrirsi e dell’abitare.
Va precisato, in conclusione, che tutto ciò non comporta una rinuncia alla più qualificata ricerca scientifica e tecnologica. Anche le tecnologie intermedie devono risultare adeguate ai loro obiettivi e appropriate alle situazioni in cui vengono chiamate a operare. Ancora una volta, per non provocare ulteriori e perniciose divisioni, bisogna che l’accento venga posto più sulla qualità della intelligenza progettuale che sulla quantità delle risorse produttive. In altre parole, bisogna che il progetto incorpori tutte quelle funzioni di programmazione e di controllo necessarie a garantire un funzionamento esente da eccessivi interventi di manutenzione e di sostituzione, che spesso costituiscono un fattore di rapido degrado operativo e di inevitabile fallimento finanziario.
Smettiamo dunque di chiederci se il gioco, il fine da conseguire, valga la candela, i mezzi da porre in atto, e cominciamo a chiederci se la candela valga il gioco, cioè se i mezzi non rischino spesso di sopraffare il fine.
In apertura, particolare da Georges de La Tour, Il denaro versato, 1625-27, National Art Gallery, Leopoli, Ucraina.
(gv)