OVVERO, IL PROBLEMA DELL’INTERFACCIA
di Gian Piero Jacobelli
Bisogna cambiare, in Italia più che in Europa, in Europa più che nel resto del mondo. Cambiare modo di pensare, senza tradire se stessi. Cambiare strada, senza rischiare di perdersi. Ma cambiare. Paradossale, se si pensa che l’Italia e l’Europa hanno di tempo in tempo rappresentato dei punti di riferimento per quanti, tra gli altri, volevano cambiare. Ma proprio perché paradossale, almeno apparentemente, quello che si impone in questi anni è un cambiamento che va valutato e se possibile programmato con grande prudenza e avvedutezza. Essere diversi dagli altri o essere come gli altri; essere come gli altri o essere addirittura più realisti del re?
Per esempio, sono in molti a ritenere che il modello italiano della piccola e media impresa, quando non si inabissa nel sommerso, resta una soluzione produttiva che molti hanno motivo di invidiare, mentre in Italia si continua a considerarla una sorta di acne adolescenziale, che ancora ci separa dalla grande impresa con propensioni globalizzanti. Ma anche in tema di globalizzazione, c’è chi la pensa come una grande occasione per un Paese che possiede tante specificità da proporre all’attenzione di altri mercati, vicini e lontani, e c’è chi la pensa come un espediente per pubblicizzare le perdite e privatizzare i profitti, come si diceva una volta a proposito di chi sollecitava regimi assistenziali per evitare di confrontarsi con il mercato.
Fatto sta che quando si parla di cambiamento le opinioni sono discordi e molto condizionate dai personali orientamenti ideologici: chi non vuole cambiare e pensa al cambiamento come un ritorno indietro; chi vuole cambiare senza sapere né perché né come e pensa al cambiamento come una gara a ostacoli nei confronti del resto del mondo; chi vuole cambiare come il Gattopardo, facendo finta che tutto cambi perché nulla cambi.
Per fortuna, esiste anche una ulteriore categoria, di quelli che vogliono cambiare “cum juicio”, di manzoniana memoria. Cosa significa “cum juicio”, ma “adelante”, cioè cosa significa là dove il cambiamento è programmatico, dove il cambiamento si chiama innovazione per dire qualcosa di più, dal momento che cambiare non sempre possiede un preciso orientamento, mentre nell’innovazione comunque il nuovo si contrappone al vecchio.
Poiché il discorso si è già aggrovigliato in troppe premesse, sarà opportuno essere, se non più chiari, quanto meno più tassativi sull’argomento che quindi interessa: quello appunto dell’innovazione e dei suoi rapporti con la formazione. Tre sono gli assunti che qui si vorrebbe argomentare: che l’innovazione non costituisce un valore in sé, ma in funzione degli obiettivi che si vogliono conseguire; che l’innovazione significa tante cose che non si tengono necessariamente tutte insieme: per esempio, si può innovare sul processo, sul prodotto, sull’organizzazione, sulla commercializzazione, sulla promozione e via dicendo; che il problema non è quindi tanto quello di promuovere l’innovazione in quanto tale o a tutti i costi, ma quello di promuovere un atteggiamento che sia idoneo a valutare strategicamente l’innovazione, a porre continuamente a confronto ciò che si può e ciò che si vuole fare.
In un recente Libro Rosso (per il colore della copertina, non per altro) edito dalla Casa editrice della Luiss con il titolo Top 20. Le tecnologie emergenti, Alessandro Ovi, redigendo una panoramica degli stati di avanzamento dei diversi settori della ricerca, in particolare di quelli che sintetizza nelle categorie “Bio”, “Nano” e “Info”, pone il problema dell’innovazione in termini largamente innovativi, se si pensa che ancora troppo spesso in Italia l’innovazione viene pensata e proposta come un fattore promozionale dei grandi gruppi che possono permettersela, in una logica di contraddittoria continuità degli interessi: “Dice Nicholas Negroponte che ‘uno dei fondamenti di un buon sistema di innovazione è la diversità. Credenze condivise e ben radicate, norme largamente diffuse, sono tutti nemici delle nuove idee. Una cultura molto eterogenea, all’opposto, incoraggia l’innovazione per merito di coloro che hanno la capacità di guardare ogni cosa da punti di vista differenti’. Non è un’affermazione banale, perché contrasta con qualunque concetto di pianificazione del processo innovativo. Un’affermazione che lascia anche la valutazione delle tecnologie emergenti assai più all’intuizione delle capacità trasgressive, o come dicono gli addetti ai lavori ‘distruttive’, di ogni singola idea, che non a una razionale, ma forse troppo precoce, previsione dell’impatto sulle preferenze e sui comportamenti di utenti e consumatori, e quindi sul mercato”.
In altre parole, quanto più qualcosa appare dall’inizio promettente, tanto meno lo è davvero, quanto più qualcosa si inquadra nelle strutture “innovative” di una organizzazione aziendale, tanto più rischia di trovarsi condizionato dalle remore del già fatto. In un intervento di qualche anno fa su “Technology Review” si rilevava come le grandi imprese americane avessero creato al proprio interno dei nuclei operativi di ricercatori il cui compito era proprio quello di pensare contro corrente e spesso di pensare semplicemente contro: contro lo stesso interesse aziendale che magari, da una radicale innovazione di prodotto, avrebbe potuto essere messo in crisi. Per altro, non sono poche le insinuazioni sulle innovazioni tecnologiche che potrebbero davvero cambiare il mondo e che vengono tenute in frigorifero o frenate per evitare che le tecnologie mature debbano venire sostituite prima di avere espresso tutte le loro potenzialità di mercato. Non a caso, proprio il settore dell’energia è ricco di questi punti interrogativi, di queste docce scozzesi, che una volta sembrano illudere e la volta dopo sembrano deludere.
In questo senso, quando si parla di una politica della ricerca bisogna intendersi perché si rischia di comunicare proprio il contrario di quanto si vorrebbe fare. Politica della ricerca non significa scelte precostituite, programmazione rigida delle risorse, strutture irreggimentate e irreggimentanti. Significa, al contrario, che si deve creare un ambiente adatto alla affermazione della creatività, che, come indica giustamente Ovi, non si sa dove possa emergere, non si sa chi se ne possa rendere interprete, non si sa cosa possa riguardare. Significa che bisogna fare in modo che le buone idee trovino il terreno adatto alla loro crescita e alla loro implementazione, che lo spirito del ricercatore possa coniugarsi con lo spirito dell’imprenditore, anche se non necessariamente nella stessa persona. Significa soprattutto che, prima di dimostrarsi cattive, tutte le idee possono essere buone e che quindi deve maturare nel sistema di valutazione la consapevolezza dell’importanza di procedere senza la opprimente paura dei fallimenti, in una metodologia dell’errore che, come predicava la massima anglosassone, è pure necessario per rendere produttiva la prova.
Ovviamente politica della ricerca significa anche che si vogliono conseguire degli obiettivi al tempo stesso utili e significativi in ordine alle potenzialità e alle aspettative del Paese: obiettivi in cui, come direbbero i semiologi, valori d’uso e valori di base possano trovare una sintesi equilibrata e produttiva. Politica della ricerca, infatti, è locuzione che associa le due più significative propensioni della condizione umana: la conoscenza come interminabile viaggio nell’ignoto, anzi nel non ancora noto, e la convivenza come affermazione comune di una mutevole, ma condivisa visione del mondo.
In questa prospettiva strategica, si possono rilevare sinteticamente alcuni fattori critici nei processi di innovazione prevalenti in Italia che richiedono un rapido e radicale mutamento di strategia, cercando di evitare le ipoteche dei luoghi comuni. In particolare, un problema fondamentale è quello dei rapporti che devono intercorrere tra le agenzie formative, in particolare le strutture universitarie, e il difforme contesto delle imprese.
Sarebbe assurdo darsi la zappa sui piedi. Se diversità comporta un rilevante vantaggio competitivo, non avrebbe senso asservire l’università ai più pressanti obiettivi d’impresa, come purtroppo sempre più spesso avviene nella assurda ricerca di una pietra filosofale capace di ritrasformare l’oro in piombo. Al contrario, sarebbe opportuno creare e potenziare le strutture di mediazione e di interfacciamento, allo scopo di finalizzare le già conseguite e generali capacità critiche alle specifiche capacità operative ancora da conseguire. L’obiettivo deve essere quello di promuovere strutture formative aperte, non scelte precoci, che ne limitino le potenzialità di visione e di progetto. Tra l’altro, sarebbe davvero autolesionistico rinunciare alla consolidata e preziosa matrice classica, che garantisce quella “cultura della commistione”, basata sul dialogo tra settori disciplinari diversi, da cui può scaturire una autentica creatività concettuale e operativa, dotata di una accentuata attitudine combinatoria e di quella capacità di cogliere le occasioni che Horace Walpole alla metà de Settecento aveva chiamava serendipity.
Stando così le cose, le relazioni che intercorrono tra i processi chiamati in causa nel contesto dell’innovazione – quello conoscitivo, quello formativo, quello produttivo, quello promozionale, quello commerciale – non si risolvono semplicemente nella predisposizione e nella specializzazione di strumenti di comunicazione rivolti alla pubblica opinione, in una promozione scientifica e tecnologica che spesso non serve ad altro se non a chiudere il discorso proprio là dove si è aperto, vale a dire sulla soglia di una estraneità che piace e paga proprio in quanto resta estranea e spesso compromissoria.
Quella della mediazione e dell’interfaccia è una soluzione che implica l’associazione di un sistema di autonomie e di un sistema di connessioni non condizionanti: il fiume da un lato, il ponte dall’altro. Il fiume come metafora di un cambiamento incessante e anche delle tante correnti che ne agitano e ne articolano il corso. Il ponte come metafora del passaggio, ma soprattutto come punto di vista comune, che consente di percepire un sistema confuso di tendenze contrastanti come una comune tensione verso un cambiamento “cum juicio”.