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    Il fin, la meraviglia

    Cinquecento anni fa, l’America; tra qualche anno, Marte:
    ogni passaggio storico si muove tra preoccupazioni e speranze.

    di Gian Piero Jacobelli

    Si chiama Edwin Eugene, ma il soprannome «Buzz» ha preso il sopravvento ed è stato persino legalizzato una ventina di anni fa. Per tutti, Aldrin , che partecipò alla storica missione lunare dell’Apollo 11 con Neil Armstrong e il «romano» Michael Collins, diventando il secondo uomo dopo Armstrong a mettere piede sulla Luna – è «Buzz», come il ronzio delle api, un segnale di presenza e di direzione insieme. Fedele al suo soprannome, anche questa volta Buzz Aldrin ha tracciato, per così dire, un mutamento di rotta che promette di lasciare il segno. Intervistato da «Technology Review» nelle pagine che precedono, il «ronzio» di Aldrin punta decisamente verso Marte, abbandonando la Luna alla esplorazione delle macchine automatiche. Non perché sulla Luna non si possa trovare qualcosa d’interessante, in termini di conoscenze e di risorse materiali, ma perché Marte è decisamente un’altra cosa. Un’altra cosa in termini di praticabilità e di potenziale sopravvivenza dell’uomo, qualora ce ne fosse bisogno; un’altra cosa, anche in termini culturali, vale a dire connessi con quelli che una volta si chiamavano gli effetti di terzo grado di qualsiasi innovazione: il primo grado riassumendosi in quello economico, il secondo in quello sociale e il terzo, appunto, in quello culturale.

    In proposito, Aldrin corrobora le sue convinzioni molto concrete («La Luna sarebbe una perdita di tempo e uno spreco di risorse») con alcune affermazioni un poco più astratte, che, per il tono addirittura cabalistico, acquistano un non trascurabile valore sintomatico: «Su Marte entro il 2035: esattamente 66 anni dopo il nostro atterraggio sulla Luna, che veniva 66 anni dopo il primo volo dei fratelli Wright». In effetti, presi nelle secche critiche e spesso alienanti di un passaggio di millennio assai più faticoso di quanto non lasciassero prevedere le ambigue, ma enfatiche profezie postmoderne, forse stiamo trascurando i prevedibili impatti della ripresa delle esplorazioni spaziali sui già fragili assetti identitari di un mondo tanto omologato, quanto diviso.

    Per la verità, lo aveva già preannunciato il brillante filosofo tedesco Peter Sloterdijk, ricordando che «quasi un secolo prima che Sartre facesse pronunciare al personaggio di un suo dramma la frase: l’inferno sono gli altri, Melville aveva toccato altre profondità dicendo: l’inferno è il fuori» (L’ultima sfera, Carocci, 2002). Dall’Europa all’America, come si vede, le frontiere interne trovano sfogo e si compensano nelle frontiere esterne: perché l’America nasce, nell’immaginario collettivo, proprio come un modo di fare i conti con se stessi facendoli con gli altri: altri per definizione, perché spesso falsi altri, indiani che non vivevano nelle Indie, ma nelle «Indie di casa nostra», per mettere a frutto in un diverso contesto la ormai proverbiale espressione di rammarico, ripresa da Ernesto de Martino.

    Dalla circumnavigazione all’attraversamento dello spazio

    Proprio 500 anni fa, in una calda, caldissima estate del 1510, il mondo si accingeva a cambiare radicalmente, proprio perché, a circa venti anni di distanza dalla prima spedizione di Cristoforo Colombo, si cominciava a capire che Colombo aveva scoperto un’altra cosa. Nel frattempo, l’Ammiraglio delle Indie aveva dato origine a una discendenza che ne declinava le intuizioni e gli equivoci. A Hispaniola, dove gli spagnoli litigavano fra loro proprio come avevano fatto e continuavano a fare in patria, il figlio maggiore di Colombo, Diego, che aveva ottenuto il titolo dinastico di Vicerè, stava allestendo una spedizione per Cuba, dove si sarebbe compreso che anche questa era solo una tappa verso qualche cosa d’altro, e da dove, quindi, avrebbero preso le mosse, tra le beghe e le rivalità consuete, la impresa di Hernàn Cortés verso le coste del Guatemala e la fatidica conquista del Messico.

    Cosa c’entra un anniversario così lontano nel tempo e nello spazio e un evento che appare del tutto marginale rispetto alla stessa scoperta dell’America e a quanto ne seguì quasi senza volere, con l’idea di una globalizzazione che fatalmente porta fuori di sé? C’entra, almeno a nostro modo di vedere, perché a volte sorprendono soprattutto le conseguenze di scelte che vengono compiute giorno per giorno, come fossero rilevanti e scontate almeno sino a quando non si rivelano determinanti, come nota con la consueta incisività uno dei maggiori filosofi italiani, Carlo Sini, presentando appunto una raccolta di saggi sulle conseguenze «filosofiche» della scoperta dell’America: «Che la scoperta dell’America, come avvertirono gli stessi contemporanei di Colombo, costituisca l’evento capitale della storia dell’uomo a noi nota è cosa difficilmente contestabile. Per renderci conto oggi dell’impatto che essa produsse bisognerebbe forse ricorrere a un’immaginazione fantascientifica, come sarebbe l’invasione del nostro pianeta da parte di creature extraterrestri, molto simili a noi per aspetto, ma decisamente difformi per cultura e capacità tecniche» (E la filosofia scoprì l’America, Jaca Book, 2003).

    Non sfuggirà la sagacia con cui Sini include se stesso e i lettori dalla parte dei conquistati piuttosto che da quella dei conquistatori: non perché qualcuno possa ragionevolmente pensare che i pericoli vengano da fuori, in quanto sono sempre storicamente venuti da dentro; piuttosto, perché il dominato è quello che, in qualsiasi campo della umanità si trovi, subisce le conseguenze maggiori dell’incontro. In effetti, aggiunge Sini, «la conquista medesima fu per i conquistatori uno specchio inquietante e un luogo di interrogazione altamente problematico». Anche quando, aggiungiamo noi, l’incontro non dovesse avvenire, anche quando tutto dovesse risolversi in uno sguardo gettato oltre l’orizzonte, in una domanda priva di risposta, persino in un passo più lungo della gamba. Anche in questo caso, sarebbe come se tutto ciò che sappiamo, si mettesse in moto in maniera così rapida e vorticosa da farci pensare che se ne possa recuperare il controllo solo altrove, da un’altra parte, con altri strumenti concettuali e operativi, assumendo un altro punto di vista: quello di Marte, per tornare all’esempio di Aldrin.

    Una questione di segni, che consentono di pensare l’impensabile

    I segni che secondo le popolazioni mesoamericane annunciarono l’arrivo degli spagnoli , la terra che arde, i grandi cerchi bianchi nel cielo e via dicendo, sul filo di qualcosa che suona familiare anche oggi , vennero scorti prima che sulla riva del mare e sulle strade montuose per Teotihuacan si scorgessero davvero quegli strani esseri ricoperti di una pelle metallica e, taluni, alti come una casa, con due teste e quattro zampe. Ciò che conta, nei segni, è la sensazione che qualcosa debba avvenire e non perché stiano per giungere gli extraterrestri, ma perché i terrestri hanno, per così dire, colmato la misura, raggiungendo quei livelli di soglia, nelle capacità di gestione delle risorse a disposizione, nelle aspettative di crescita, nelle conseguenti tensioni interiori, che rendono psicologicamente evidente la emergenza del passaggio.

    Non a caso si tratta sempre, come si trattò cinquecento anni fa, di un passaggio caratterizzato dalla «meraviglia». Proprio a proposito della conquista dell’America, Stephen Greenblatt, storico della letteratura e eminente studioso shakespeariano – La Tempesta, l’ultimo dramma di Shakespeare, torna sul rapporto tra le terre vicine e lontane, esattamente un secolo dopo gli avvenimenti su cui stiamo riflettendo – sottolinea la priorità dei sentimenti sugli eventi e sulla loro razionalizzazione: «La meraviglia è, a mio parere, la figura centrale nella reazione iniziale degli europei al Nuovo Mondo, l’esperienza emotiva e intellettuale decisiva in presenza di una differenza radicale. Nil admirari, insegna la vecchia massima. Tuttavia, davanti al Nuovo Mondo, il modello classico di distacco maturo ed equilibrato sembrava nel contempo inadeguato e impossibile. Il viaggio di Colombo inaugurò un secolo di intenso stupore» (Meraviglia e possesso, il Mulino, 1994).

    Questa meraviglia è stata analizzata in una infinità di studi dedicati allo sconvolgimento che le scoperte geografiche procurarono sulla visione del mondo e sugli assetti socioeconomici della vecchia Europa, innescando una serie di tellurismi culturali che sfociarono nella rivoluzione scientifica. Per altro, tutto avvenne come se non stesse davvero succedendo qualcosa, come se le scoperte incalzanti di cui giungeva l’eco al di là del mare, non si iscrivessero in una soluzione di continuità, ma anzi derivassero dalle situazioni passate e presenti; come se, fino all’ultimo, l’evento inconsueto si rivestisse di abiti familiari, fossero quelli del vizio o della virtù. Il brillante semiologo bulgaro-francese Tzvetan Todorov riassume questo paradosso in una domanda apparentemente scontata: «Perché America e non Colombia». La risposta concerne un problema di priorità nella priorità: chi è riuscito per primo in ciò che conta davvero?

    Si dice, a torto o a ragione, che Amerigo Vespucci abbia per primo toccato la terra ferma, mentre Colombo, i suoi compagni e familiari la consideravano ancora una terra incognita. Neppure questa risposta, tuttavia, risponde con certezza al vero: in realtà, precisa Todorov, Amerigo forse non è stato il primo a mettere piede sul suolo che avrebbe portato il suo nome, ma è stato il primo a rendersene conto: «Si tratta di una scoperta intellettuale, non tanto materiale». Se neppure questa fosse la risposta giusta dal punto di vista storico, a noi sembra giusta dal punto di vista culturale: Amerigo sa scrivere con più grazia di Colombo e racconta il suo viaggio «come se»: come avrebbe potuto e dovuto essere, con abilità evocativa e sinestetica, mescolando la bellezza del paesaggio con il piacere del cibo e, ovviamente, con quella maliziosa curiosità sessuale che, ancora oggi, nonostante tutto, si contrabbanda meglio a proposito degli altri, siano questi gli animali o, perché no?, gli extraterrestri.

    Guardarsi dentro per guardare fuori e poi, magari, per andarci davvero

    Insomma l’America si chiama America perché Amerigo Vespucci ha saputo raccontarla meglio, ma il racconto è appunto il fondamentale segno della crisi, il riflesso narrativo di una cultura che, volente o nolente, deve mettersi in movimento, che non può più risiedere presso di sé. Allora, come in un caleidoscopio, le cose e le parole, ma soprattutto le immagini di una cultura cominciano a trasformarsi, assumendo quei tratti di novità, di sorpresa, di meraviglia, appunto, che ce le fanno intendere come se provenissero da un altrove, mentre provengono da un qui e ora, come sottolinea a ragione lo stesso Todorov: «L’immagine di unità e di omogeneità che una cultura ambisce dare di se stessa proviene da un’inclinazione dello spirito; si fonda su una decisione a priori. Anche al suo interno, una cultura si costituisce, da una parte, grazie a un continuo lavoro di traduzione (o si dovrebbe dire di «transcodifica»?), da un lato perché i suoi membri si ripartiscono in sottogruppi (di età, sesso, provenienza, appartenenza socioprofessionale), ma dall’altro perché i percorsi stessi attraverso i quali essi comunicano non si assomigliano; l’immagine non si può convertire in linguaggio senza alcun resto, non più che per l’operazione inversa» (Le morali della storia, Einaudi,1995).

    Quel «piccolo passo per l’uomo, ma grande passo per l’umanità, che Armstrong, il «lunatico» compagno di viaggio di Aldrin, disse di avere fatto sulla Luna, torna oggi, destinazione Marte, a ricordarci che, per affacciarci alla finestra di un mondo nuovo, dobbiamo prima completare, in scienza e coscienza, come si dice, quel «viaggio intorno alla propria camera», che Xavier De Maistre cominciò alla fine del Settecento, proprio quando stava per scoccare l’ora fatale della modernità.

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