Il digitale come ambiente di lavoro

Pubblichiamo la terza di cinque riflessioni correlate di Andrea Granelli, studioso delle nuove tecnologie della comunicazione e presidente di Kanso, società di consulenza specializzata nei processi innovativi, in cui viene analizzata la funzione essenziale del Web, con specifico riferimento all’attuale situazione di contrazione relazionale dovuta alla epidemia di Coronavirus.

di Andrea Granelli

A ben vedere, il digitale non è solo un facilitatore della comunicazione e della produttività individuale. Fornisce e soprattutto potrà fornire molti contributi positivi, sia nei processi di apprendimento, sia in quelli lavorativi (che la formazione dovrebbe contribuire a migliorare).

Rende infatti disponibili e diffuse: le piattaforme per supportare l’apprendimento; i contenuti base dell’apprendimento (informazioni, dati, presentazioni, video, articoli, libri, enciclopedie); gli strumenti per organizzare la propria conoscenza personale; gli ambienti di lavoro, sempre più necessari e utilizzati (mail, chat, news, videocomunicazione, archivi condivisi, …); i sistemi di monitoraggio “da remoto” (tramite Iot e dati) dei processi e degli ambienti.

Sarà quindi opportuno studiare nuove configurazioni o meglio ibridazioni non solo fra il materiale e il digitale, ma anche fra i processi di formazione e i processi di lavoro (una sorta di learning by doing digitally enabled), che vedano la remotizzazione – non solo di una persona, ma anche di un team che deve collaborare e interagire – come la regola e non l’eccezione da gestire in emergenza.

I futuri leader, pertanto, dovranno essere completamente a loro agio anche negli ambienti digitali, dove non si limiteranno a lavorare senza perdere in efficacia ed efficienza, ma imposteranno anche il proprio potenziamento personale nonché l’apprendimento continuo.

Ciò non vuol dire assolutamente puntare all’all-digital a tutti i costi ed eliminare le relazioni dirette, ma piuttosto trovare nuove forme di ibridazione e di interazione che consentano di estrarre il meglio da ciascuna tipologia di esperienza. Forme di ibridazione che richiedono una conoscenza approfondita del digitale e dei suoi impatti trasformativi, anche quelli problematici.

Osserva Paul Virilio che «la tecnologia crea innovazione, ma – contemporaneamente – anche rischi e catastrofi: inventando la barca, l’uomo ha inventato il naufragio». Si tratta di un suggerimento sapiente per metterci in guardia dal facile ottimismo che attraversa (o perlomeno attraversava fino a poco tempo fa) ogni riflessione sul fenomeno del digitale. Il designer Donald Norman rincara la dose, ricordandoci della sostanziale inconciliabilità fra sistemi digitali e sistemi biologici: «Siamo esseri analogici intrappolati in un mondo digitale».

Innanzitutto, il digitale è un ambiente e non un semplice strumento. Un ambiente che ci sta trasformando e che è talmente parte di noi da rendere meno evidente il processo trasformativo in atto. È un po’ come il linguaggio: è difficile parlare del linguaggio usando il linguaggio stesso; c’è interferenza, c’è una naturale autoreferenzialità. Bisogna dunque astrarre il problema e salire di un “livello logico”, bisogna meta-ragionare, come dicono gli esperti, e osservarci “dall’alto” mentre usiamo il linguaggio, diventare noi stessi oggetto di indagine. Allora il linguaggio diventa anche oggetto di analisi e non solo strumento espressivo.

Questo metodo va utilizzato anche con il digitale che pervade talmente la nostra vita, ci condiziona quotidianamente in così tanti comportamenti e aspetti, da rendere necessario “osservarlo” dall’esterno, con una modalità meno soggettiva e più oggettiva. Per questo motivo non è facile parlare in maniera critica del digitale, non è facile renderci conto quanto il digitale stia condizionando i nostri comportamenti e modificando i nostri ragionamenti.

Pensiamo a come comunichiamo, leggiamo, cerchiamo le informazioni, facciamo di calcolo, gestiamo i nostri risparmi, organizziamo i nostri viaggi e riflettiamo quanto utilizzo di strumenti digitali facciamo.

In secondo luogo, del digitale si fa sempre di più ostentazione che educazione, marketing più che conoscenza. È quindi venuto forse il momento di invertire il processo. Innanzitutto dobbiamo ricordarci che il digitale ha avuto un tasso di trasformazione vorticoso, quasi incredibile. È nato come strumento di calcolo – pensiamo ai primi calcolatori – e poi è diventato strumento di visualizzazione delle informazioni (video, stampanti, plotter, …); successivamente è diventato capace di archiviare le informazioni (nastri, dischi, memorie a stato solido, …); quindi è anche diventato strumento di comunicazione (posta elettronica, chat, blog, …); poi sono esplose le sue funzionalità: scrivere, disegnare, criptare, pagare, attivare processi, modellizzare, monitorare fenomeni, riconoscere, simulare e via dicendo. Il digitale ha creato un vero e proprio universo funzionale, a cui sono associate infinte possibilità di uso.

Infine, il digitale sta ridefinendo molte regole e confini: tra reale e virtuale, tra esistente e non esistente, tra vero e falso, tra atto individuale e atto collettivo, tra lecito e illecito. Prendiamo per esempio il diritto d’autore: che dire del concetto di copia nell’era di Internet? Quando un utente visita un sito Web e accede a contenuti che non sono di sua proprietà, la funzione tecnica di “lettura su Web” copia temporaneamente sul suo computer (senza che lo richieda esplicitamente) il contenuto che sta consultando. È un atto di copia (anche se temporanea) di cui l’utente è sostanzialmente inconsapevole. È quindi evidente che il concetto di copia digitale è molto diverso da quello tradizionale, dove era necessaria una scelta deliberata di copiare, usando tra l’altro strumenti pensati specificamente per la copia (per esempio le fotocopiatrici).

Quando una tecnologia innova molto, perturba anche le norme esistenti e la legge si mette allora alla sua ricorsa; ma è spesso una rincorsa affannosa quasi impossibile, anche perché sono i comportamenti che nascono dalla nuova tecnologia (spesso non previsti neanche dai progettisti di quella tecnologia) che creano i problemi, non la tecnologia di per sé. E quando i comportamenti indesiderati si diffondono e si consolidano, il legislatore cerca di porvi rimedio; ma è sempre un processo ex post.

Tre comportamenti possono contrastare l’inevitabile emergenza di queste dimensioni problematiche limitando al minimo i loro effetti sulla nostra vita, personale e professionale: la pratica (padroneggiare i principali strumenti digitali); il discernimento (saper separare l’erba buona dalla zizzania evitando di fare di tutta l’erba un fascio); quella che potremmo chiamare “intimità affettiva” (essere a nostro agio negli ambienti digitali, sapendo cogliere le valenze simboliche del digitale, che si manifestano oltre le specifiche prestazioni e funzionalità).

Questi comportamenti si esplicitano, in concreto, con tre specifiche azioni: dedicare tempo al digitale, sperimentando piattaforme, navigando frequentemente sulla Rete per acquisire dimestichezza con gli strumenti e una certa intimità con l’ecosistema digitale e le dinamiche della navigazione in Rete; affinare il nostro senso critico (o meglio il nostro crap detector) nei confronti delle promesse del digitale, leggendo molto, non tanto notizie e manuali, ma riflessioni multidisciplinari.

In poche parole, è necessario monitorare periodicamente il nostro utilizzo per evitare che il digitale ci “scappi di mano”, confondendo gli automatismi con le buone pratiche.

Il terzo punto è particolarmente critico e troppo poco analizzato. Prendiamo per esempio il caso della posta elettronica. Da sistema rivoluzionario di comunicazione e strumento di miglioramento della produttività si è trasformato, in moltissimi casi, in vero e proprio incubo.

Non è infrequente trovare persone che ricevono centinaia di mail al giorno e alcune aziende hanno calcolato che molti manager dedicano alla gestione della loro casella di mail quasi un giorno alla settimana. È chiaramente uno strumento “scappato di mano”. Il processo risultante dalla interazione fra tecnologia e comportamenti umani è diventato critico.

Perciò vanno monitorate le modalità di utilizzo del digitale. Ma soprattutto dobbiamo rafforzare la nostra cultura umanistica, unico antidoto capace di contrastare le dimensioni problematiche e in grado sia di cogliere le dimensioni simboliche e le valenze etiche del digitale, sia soprattutto di evitare che lo strumento si trasformi in un fine (di cui l’utilizzatore diventa strumento).

L’obiettivo non è alfabetizzarsi o addestrarsi agli strumenti digitali, ma creare un vero e proprio Digital State of Mind, che consenta di leggere ogni fenomeno con la lente del digitale senza cadere nei suoi trabocchetti o nelle sue utopie totalizzanti.

(gv)

Related Posts
Total
0
Share