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    Grandi occhi, grande bocca

    Ancora sulla globalizzazione

    di Gian Piero Jacobelli

    Non manca giorno che sugli scaffali delle librerie appaia qualche saggio più o meno propositivo in merito alla vexata quaestio della globalizzazione. Tanti libri non significano sempre tanto sapere in più. Spesso significano disagio, disorientamento, disparità di vedute e questo sembra appunto il caso della globalizzazione che, tuttavia, costituisce il riferimento prevalente dei fenomeni, positivi o negativi, che caratterizzano il nostro tempo.

    A volte, come nel caso delle attività produttive, la globalizzazione ha sostanzialmente cambiato le carte in gioco, sottraendole al confronto dialettico tra i diversi fattori della produzione. Molti hanno osservato che, globalizzandosi, sia la proprietà sia la forza lavoro hanno finito per diventare entità anonime e generiche, con cui e tra cui è sempre più difficile fare i conti.

    Per contro, quanto più le attività si globalizzano, tanto più si accentuano paradossalmente le logiche della localizzazione. La gente non ha più bisogno di muoversi, di migrare per raggiungere i luoghi in cui si svolgono le attività connesse ai propri interessi, ma queste attività possono avvenire là dove, alternativamente, ne emerge la domanda o l’offerta. Non a caso il gioco dei neologismi ha subito inquadrato questa contraddizione chiamandola «glocalizzazione», un ossimoro che comporta la consapevolezza degli ambigui rapporti tra la competenza, qualità astratta e generica, e la pertinenza, qualità concreta e specifica.

    La lingua batte dove il dente duole: se ne continua parlare perché restano evidentemente troppi punti oscuri, troppe incertezze: in primo luogo, la mancanza di controlli che deriva dalla decontestualizzazione delle decisioni e quindi dalla difficoltà a individuarne i responsabili. Non a caso le diverse globalizzazioni che è possibile tematizzare, sono state raggruppate in due grandi categorie. Quelle che hanno a che vedere con una responsabilità collettiva, per la quale tuttavia mancano gli strumenti di coordinamento e di controllo: si pensi alle difficoltà che incontra ogni tentativo di globalizzare la coscienza ecologica. E quelle che, al contrario, hanno a che vedere con le responsabilità individuali, che nelle grandi reti della mobilità e della comunicazione tendono a mistificarsi e al limite a nascondersi. In questa ottica, il riferimento spesso ideologico al terrorismo costituisce una cartina di tornasole della insicurezza che si cela in una globalizzazione percepita come un «altro mondo», sconosciuto e talvolta inconoscibile.

    In questa prospettiva, emerge una ulteriore contraddizione che tende spesso a defilarsi da una consapevolezza diffusa e a ricadere nell’oscuro e turbolento mare dei rapporti tra globalizzazione e comunicazione.

    Ne parla in maniera perspicua e convincente quello che è forse il più acuto e problematico critico della globalizzazione, il sociologo polacco naturalizzato inglese Zygmunt Bauman, nei saggi recentemente pubblicati in «Globalizzazione e localizzazione» dall’editore Armando. Due considerazioni appaiono fondamentali e invitano a una attenta lettura.

    Anche Bauman sostiene che, con la globalizzazione, «nessuno sembra sotto controllo»: «il significato più profondo trasmesso dall’idea di globalizzazione è quello del carattere indeterminato, privo di regole e dotato di autopropulsione degli affari del mondo: l’assenza di un centro, di una stanza dei bottoni, di un comitato di direttori, di un ufficio amministrativo. La globalizzazione è il nuovo disordine del mondo». Per contro: «ogni tentativo di porre ordine è locale e determinato da qualche problema, ma non vi è luogo che possa pronunciarsi per l’umanità nel suo insieme, né un problema che possa affrontarsi per la totalità degli affari del globo».

    Ma, aggiunge in un altro saggio lo stesso Bauman, non si deve pensare che tutto ciò derivi semplicemente da un ritardo nella emergenza di nuovi assetti istituzionali, che oggi non ci sono o sono appena abbozzati, ma domani potrebbero consolidarsi e svilupparsi. In realtà, la globalizzazione esprime un nuovo e squilibrato assetto del mondo, la cui gestione è affidata ai grandi mezzi di comunicazione, che sono tanto globalizzanti quanto localizzanti, ma non per tutti allo stesso modo: «Contrariamente a un’opinione diffusa, l’avvento della televisione, questo immenso accessibile spioncino attraverso il quale è possibile gettare lo sguardo in modo abituale anche su ciò che è insolito e estraneo, non ha né eliminato la separazione istituzionale né diminuito la sua realtà effettiva. Si può dire che il villaggio globale di McLuhan non è riuscito a materializzarsi. la struttura di uno schermo cinematografico o televisivo allontana il pericolo che qualcosa possa propagarsi, anche più efficacemente di alberghi turistici e camping recintati; l’unilateralità della comunicazione tiene saldamente bloccati gli estranei sullo schermo, sostanzialmente come in una segregazione».

    In definitiva, nel passaggio cruciale a un mondo senza confini, risuona con preoccupante attualità la vecchia favola di Cappuccetto Rosso e del Lupo: «Che occhi grandi hai. è per vederti meglio. Che bocca grande hai. è per mangiarti meglio!».

    Gian Piero Jacobelli è direttore responsabile di «Technology Review», edizione italiana.

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