Quando la tecnologia altera la natura umana, provoca un sovvertimento delle categorie morali ereditate dagli antenati, sostiene uno dei più stimati filosofi britannici. Come faranno i nostri figli e nipoti a riconoscere il bene dal male in un futuro postumano?
di Roger Scruton
Nel suo romanzo intitolato Erewhon, pubblicato nel 1872, Samuel Butler descrive un immaginario paese (assolutamente inesistente) nel quale è vietato qualsiasi tipo di macchina. A dire il vero, un tempo gli abitanti avevano a disposizione orologi, macchine a vapore, pompe meccaniche, montacarichi e molti altri dispositivi che potevano essere ammirati nelle grandi esposizioni dell’Inghilterra vittoriana. Ma, a differenza dei contemporanei dell’epoca vittoriana di Butler, gli abitanti del paese descritto in Erewhon avevano percepito l’enorme pericolo che questi congegni rappresentavano. Si erano resi conto in sostanza che le macchine erano soggette a un continuo perfezionamento e che essi stessi non trovavano mai il tempo per riflettere sulle imperfezioni via via superate. Sempre la macchina successiva era migliore, più versatile e più adeguata alle funzioni per le quali era stata realizzata rispetto alla precedente.
Inevitabilmente, perciò, il processo di perfezionamento sarebbe continuato fino al momento in cui le macchine avrebbero fatto completamente a meno degli esseri umani, ovvero fino a quando sarebbero state in grado di produrre e riprodurre se stesse. A quel punto, come qualsiasi creatura che obbedisce alla legge dell’evoluzione, le macchine si sarebbero barricate per resistere alla concorrenza del loro unico rivale: l’uomo. Ecco perché gli abitanti di Erewhon, prevedendo che le macchine prima o poi li avrebbero distrutti, hanno distrutto le macchine.
La loro paura non era irrazionale, ma la sua premessa non era convincente, almeno per i lettori di Butler. L’idea di una macchina che si autoriproduceva sembrava alla maggior parte di loro una mera fantasia letteraria. Sessant’anni più tardi, tuttavia, Aldous Huxley pubblicò Il mondo nuovo (Brave New World), il ritratto di un altro paese immaginario in cui gli uomini vengono prodotti, al pari delle macchine, sulla base di indicazioni politiche ufficiali. Intelligenza, interessi, piaceri e dolori sono tutti controllati sia geneticamente sia per condizionamento e a tutti gli altri aspetti della psiche umana, come eccentricità, impegno, profonde emozioni e virtù, viene intenzionalmente impedito di svilupparsi. Ma allora, se gli esseri umani possono essere prodotti come le macchine in laboratori controllati da altri esseri umani, perché le macchine non possono a loro volta essere prodotte, come lo sono ora gli uomini, per autoriproduzione?
Il progresso scientifico ha reso la profezia di Huxley molto più plausibile di quella di Butler. Ma, se i lettori di Huxley hanno sentito un brivido di apprensione, ciò è avvenuto per un’altra ragione rispetto alla paura erewhoniana del predominio delle macchine. Nel mondo descritto da Huxley è caduta una barriera morale. Anche se gli erewhoniani avevano ragione a temere le macchine e anche se avevano permesso alle macchine di svilupparsi fino al limite del pericolo, essi stessi non avrebbero subito nessun cambiamento perché, in caso di crisi, solidarietà, dovere ed eroismo sarebbero intervenuti in loro difesa. La natura umana avrebbe conservato la sua integrità, punto fermo del loro universo e premessa dalla quale scaturivano tutte le loro valutazioni pratiche. Se invece supponiamo che gli esseri umani diventino un prodotto di laboratorio, come ha immaginato Huxley, che cosa resta della natura umana? Dove andrebbe a finire quel punto fisso, intoccabile, che è a monte di ogni scelta e in nome del quale tutte le scelte vengono fatte?
Si tratta di un interrogativo inquietante, ma coglie, a mio parere, la paura crescente della società verso il progresso scientifico e, in particolare, nei confronti dell’ingegneria genetica e degli scenari a essa correlati. Con l’avanzare della scienza, che rende sempre più probabile il giorno in cui Tizio sarà progettato da Sempronio per usi personali, molte persone cominciano a condividere l’ansia di Huxley. Hanno il timore che la tecnologia minacci la libertà. Basterà una generazione per confermare il concetto di «dispotismo genetico» sul prossimo, coniato dallo studioso di bioetica Leon Kass, e per asserire che gradualmente, con la manipolazione della natura umana per fini egoistici, il senso e il valore della vita ci sfuggiranno di mano.
È stato sempre così
I problemi della biotecnologia sono da un certo punto di vista simili ai problemi di qualsiasi altra tecnologia. Tutte le scoperte, ancorché utili, hanno indesiderati effetti collaterali e ogni tecnologia può essere usata per scopi buoni o cattivi. Pertanto non esiste progresso tecnologico che non sia accolto in qualche momento da proteste. La storia non riporta quelle che hanno accolto l’invenzione della ruota, ma riporta le proteste che hanno accompagnato l’invenzione delle ferrovie. Secondo il noto critico e filosofo sociale John Ruskin, le ferrovie erano un assalto crudele alla tranquillità della vita rurale, distruggevano il senso della continuità dei luoghi, sradicavano gli insediamenti umani, invadevano la campagna di mostri rivestiti di acciaio e di aree urbane senza piano regolatore. Ci hanno messo tutti in movimento, rifletteva Ruskin, quando invece la vera propensione della natura umana è di stare tranquillamente dove ci troviamo. Per quanto possa sembrare strano, i ponti ferroviari e le stazioni inglesi sono stati costruiti in armonia con i principi estetici che si ispiravano totalmente agli scritti di Ruskin, in particolare a The Stones of Venice, e vengono ricordati ancora oggi con intensa nostalgia come simboli di pace, di identità di luogo e superamento delle distanze. Anche coloro che fanno propaganda contro le automobili portano le ferrovie come mezzo ideale di collegamento da un posto all’altro del continente, sicuro, compatibile con l’ambiente e piacevole esteticamente.
Anche se la protesta di Ruskin contro le ferrovie ha perso la sua forza di persuasione, appartiene a un abito mentale che costituisce uno dei nostri istinti più profondi. Per Ruskin le ferrovie minacciavano uno dei perni stessi del nostro universo morale: la terra stessa, la terra che provvede il cibo di cui ci nutriamo, l’acqua che beviamo, le pietre con cui costruiamo. C’è un modo naturale di usare la terra che bisogna rispettare come se fosse casa nostra. Quando costruiamo, dobbiamo trattare il territorio come un habitat nel quale la nostra vita si inserisce, al pari dei pesci nell’habitat marino. Su questa linea si trovano gli ambientalisti contemporanei i quali si lamentano che, sfruttando la terra per propositi effimeri, la trattiamo come mezzo quando dovrebbe essere rispettata come fine.
Come Ruskin, gli ambientalisti che denunciano i costi della conoscenza attuale tendono a dimenticare i costi dell’ignoranza del passato. L’incendio dei boschi ha causato la deforestazione, la desertificazione del Nord Africa e il prosciugamento di laghi e fiumi in tutto il Medio Oriente. Si è trattato di una catastrofe ambientale che avrebbe potuto essere evitata se gli antichi romani e gli altri popoli del passato avessero saputo ciò che noi oggi sappiamo sull’erosione del suolo, sui microclimi e sulla chimica del carbone. I problemi ambientali che ci coinvolgono non vanno risolti ritornando a vecchi stili di vita o a metodi antichi di produzione di energia. Non è la tecnologia che ha causato i nostri problemi ambientali, ma è piuttosto la tecnologia «incompetente», cioè quella tecnologia che non ha saputo affrontare il vero problema di come produrre energia senza distruggere il pianeta. Sulle tracce di quanto Butler potrebbe avere suggerito agli abitanti di Erewhon, la nostra esortazione è: non distruggete le macchine, lasciate che le macchine vi sostituiscano, ma siate sicuri che siano programmate correttamente.
Tuttavia questa indicazione non va al cuore dell’ansia che ci circonda. Il desiderio di un ambiente controllato si scontra con la sensazione che alcuni fenomeni sono indipendenti dal nostro controllo, come le maree, le stagioni, i meccanismi delle forze naturali che ci sovrastano e dalle quali dipendiamo. Il tentativo di condurli sotto il nostro controllo è una sfida al destino. La cui sola legge è quella delle conseguenze imprevedibili.
«Io» e «noi»
Ci sono due atteggiamenti che assumiamo di fronte alle questioni pratiche, che potremmo sintetizzare in atteggiamento «Io» e in un atteggiamento «Noi». Come un individuo che agisce razionalmente io vedo il mondo come un teatro d’azione, nel quale io e i miei obiettivi occupiamo un posto centrale. Agisco per aumentare il mio potere, per acquisire gli strumenti per realizzare i miei obiettivi, per portare gli altri dalla mia parte e per lavorare con loro per superare gli ostacoli. Questo atteggiamento che si ispira all’«Io» ha radici profonde nella psiche, dal momento che definisce il punto di partenza di ogni riflessione pratica e contiene un segno indelebile di ciò che distingue le persone dal resto della natura: la libertà. In un cero senso anche gli animali sono liberi: scelgono, fanno cose sia liberamente sia sotto costrizione, ma non ne sono responsabili. Non devono giustificare la loro condotta e neppure vengono persuasi o dissuasi dal dialogare con gli altri. Questa caratteristica della condizione umana ha sconcertato molti filosofi sin dal tempo di Aristotele e costituisce il fondamento di tutto quanto c’è di importante per noi. Tutti quegli obiettivi che conferiscono alla vita umana un valore intrinseco ” giustizia, comunità, amore ” hanno origine nella mutua responsabilità degli individui che rispondono gli uni agli altri come un Io verso un altro Io.
Dietro ai miei progetti, tuttavia, a guisa di un orizzonte contro il quale vengono proiettati, c’è un altro atteggiamento, del tutto differente. Io sono consapevole di appartenere a una specie e che questa specie si trova nella natura. Sono inoltre consapevole che tutti facciamo parte di un mondo al quale ci siamo adattati. Laddove l’atteggiamento dell’«Io» cerca cambiamenti, miglioramenti, superando le sfide della natura, l’atteggiamento del «Noi» cerca tranquillità e accomodamento, a conferma che noi e il nostro mondo siamo un tutt’uno. Tutto ciò che minaccia l’equilibrio tra gli esseri umani e l’ambiente, vuoi distruggendo l’ambiente stesso vuoi indebolendo la natura umana, risveglia in noi un profondo senso di inquietudine, persino di sacrilegio. L’atteggiamento «Noi» ci dice che non dobbiamo mai disturbare i due cardini del nostro universo, che sono l’ambiente e la natura umana. Questo atteggiamento potrebbe essere il residuo di eventi preistorici, una memoria inconscia dell’armonia originaria tra «i nostri padri cacciatori» e il loro habitat naturale, dal quale le nostre specie si sono allontanate per affrontare il viaggio della conoscenza, e continua a esercitare la sua influenza su ogni nostro ragionamento pratico, riempiendoci la mente di idee di una innocenza da paradiso terrestre.
Si potrà obiettare che la natura umana non è immobile. L’atteggiamento dell’«Io» persegue con irrequietezza il mito dell’invenzione e, dedicandosi a questo obiettivo, cambia radicalmente il fine intrinseco del comportamento umano. Si consideri la televisione, settore nel quale le conquiste tecnologiche hanno modificato il mondo. Oggi è una fonte di piacere per miliardi di uomini e contemporaneamente uno strumento di formazione e informazione: la gente si intrattiene comodamente a casa invece di starsene fuori a combattere come nei tempi passati. Questo almeno è il suo lato positivo. Vi sono anche gli aspetti negativi. Sono infatti sotto gli occhi di tutti alcune conseguenze fisiche provocate dalla televisione, come l’obesità, i disturbi cardiaci o l’apatia generale. Altrettanto note sono quelle legate alla sfera mentale, come una durata di attenzione più breve, l’incapacità di comprendere argomenti astratti, un’avidità smodata di stimoli visivi, una crescente aggressività di fronte ai piccoli problemi di ordinaria amministrazione e infine un dipendenza debilitante dalla vera causa che provoca tutte queste devianze che è l’immagine in movimento sullo schermo. Tutto ciò è stato ben documentato (nell’articolo La dipendenza dalla televisione non è una semplice metafora, pubblicato su «Scientific American» nel febbraio 2002, gli autori Mihaly Csikszentmihalyi e Robert Kubey fanno un tentativo di identificare l’origine neurologica della dipendenza). Coloro che terranno nella dovuta considerazione queste argomentazioni, oltre ad avvicinarsi a una migliore conoscenza della natura umana e delle capacità e virtù necessarie per la sua piena realizzazione, finiranno col controllare i tempi di visione della televisione da parte dei loro figli affidandosi ai dispositivi di controllo della programmazione o di censura incorporati nell’apparecchio. Chi non riuscirà a seguire questa strada, finirà per convertirsi alla soluzione degli erewhoniani e farà come mio padre il quale, dopo aver fatto un discorso elevato sul danno che gli esseri umani infliggono a se stessi, subendo passivamente un intrattenimento che dovrebbero invece sapere creare impegnandosi in prima persona, lanciò l’apparecchio fuori dalla finestra e poi scese per distruggerlo definitivamente con un martello.
Il cambiamento che si produce nella natura umana guardando la televisione è, tuttavia, piccolo e gestibile. Può essere affrontato con le antiche categorie di moralità e saggezza. I bambini cresciuti con la televisione sono in grado di capire chi gli dice che ci sono altre e migliori forme di intrattenimento. Ci sono evidenti esempi di «esperienze di conversione» in cui la dipendenza si interrompe improvvisamente e definitivamente. La televisione non ci ha portato a rivedere la lista delle umane virtù al punto da includervi l’apatia e il voyeurismo o da sminuire il fascino del coraggio, della giustizia e dell’amore per il sacrificio. Tutto sommato, lascia che la nostra visione della felicità permanga inalterata. In verità ha dimostrato di essere nulla più di un trampolino per nuove e più radicali forme di intrattenimento e comunicazione. Ma non ci manca l’intuito per capire che è meglio accettare queste innovazioni tecnologiche e confidare nella capacità della natura umana di adattarvisi e di farle proprie trasformandole in nuove forme di socializzazione e nuovi modi di arricchimento del genere umano, dal momento che il genere umano non è cambiato e non sono cambiate neppure le sue esigenze.
Tutto ciò mi riporta a Huxley. Come egli aveva previsto, lo stesso atteggiamento accomodante non può essere tenuto di fronte a quegli sviluppi tecnologici che portano la nostra vita fuori dal nostro controllo. Dal punto di vista morale, la biotecnologia è intrinsecamente problematica. Non è semplice accettare che la ricerca a monte delle tecnologie comporti la manipolazione di esseri viventi, animali o umani, al punto da essere considerata immorale. Il fatto è che sono le tecniche stesse a essere inquietanti e, come avviene per altre tecnologie avanzate, possono essere applicate sia a vantaggio dell’umanità sia a suo danno. Qualunque sia la loro applicazione, qualora queste tecnologie fossero destinate a noi esseri umani, provocherebbero alterazioni tali da influire sulla stessa concezione che noi abbiamo di noi stessi. E, dal momento che le nostre opinioni morali derivano dalla concezione che abbiamo della natura umana, una qualsiasi alterazione ci disorienta, togliendoci la capacità di distinguere il bene dal male in tutto ciò che facciamo. Alcuni accolgono con entusiasmo lo sviluppo tecnologico e credono, come Nietzsche, che bisogna trascendere la natura umana per realizzare un mondo «al di là del bene e del male». Per altri, invece, la profezia di Nietzsche contenuta in óbermensch e il suo mondo postmorale dovrebbero servire da ammonimento, in consonanza con l’esigenza sentita dal Council on Bioethics del presidente degli Stati Uniti di perseguire appunto «l’impegno di approfondire con attenzione il significato morale e umano degli sviluppi della scienza e della tecnologia biomedica e comportamentale».
Indipendentemente dagli orientamenti individuali, bisogna riconoscere che siamo a una svolta epocale per quanto riguarda la capacità di modificare la natura biologica degli esseri viventi. Siamo già in grado di prevenire la fertilità o di aiutarla. Possiamo fare iniziare la vita in laboratorio e coltivarla in vitro. Possiamo individuare malattie genetiche negli embrioni e decidere in base ai risultati se debbano sopravvivere. Possiamo inserire nuovi geni in alcune parti del corpo di un adulto e presto riusciremo a inserirli nei gameti e negli embrioni. C’è la speranza, come ha sostenuto l’esperto di fertilità Robert Winston nella sua Alfred Deakin Lecture tenuta a Melbourne il 13 maggio 2001, di potere manipolare la rimozione del gene che causa la beta talassemia (una forma di anemia), un gene di cui è portatore un sardo su sette. Possiamo rimpiazzare organi e arti con protesi artificiali e trapiantare organi da un corpo all’altro. Possiamo installare chip di computer nel corpo umano e probabilmente presto nel cervello per migliorare la memoria e perfino l’intelligenza. Siamo sul punto di applicare la terapia a base di cellule staminali per fare regredire alcune forme di cecità. Tutti questi sviluppi scientifici affascinano e allarmano contemporaneamente. Se da una parte curano le malattie degenerative, dall’altra insidiano il punto fermo sul quale si basa l’atteggiamento del «Noi», di cui abbiamo parlato prima, quella caratteristica di immutabilità della natura umana da sempre sostenuta dalla dottrina della religione tradizionale: siamo stati creati a immagine e somiglianza di Dio e perciò siamo immodificabili come lo è Lui.
L’ansia di invecchiare
Non c’è ansia più drammatica di quella che accompagna la vecchiaia. Nei tempi antichi quando generalmente si supponeva che la vita umana avesse una durata tra sessanta anni e dieci, quando i dottori non si rimproveravano se i propri pazienti ottuagenari morivano, quando la scarsità delle risorse mediche significava che i giovani avevano la precedenza in caso di bisogno, la vecchiaia non era un problema etico. Le cure che aumentavano la possibilità di vivere più a lungo erano accettate come benefici insindacabili. E l’antico giuramento di Ippocrate, con il quale i dottori dedicano la loro vita a rimettere in salute i pazienti e non recare loro alcun danno, sembrava sufficiente a risolvere i dilemmi che occasionalmente si presentavano. Sostituzioni di articolazioni, trapianti di organi, terapie a base di cellule staminali (tanto per citare alcune tecnologie) hanno cambiato tutto. La vecchiaia sta diventando una malattia come diritto ed è l’unica che può prolungarsi molto al di là dei termini di norma preventivati. Oggi le persone anziane possono sopravvivere con organi donati o acquistati da giovani. In un futuro non tanto lontano saranno ricostruite pezzo a pezzo con cellule staminali estratte da embrioni. E, a ogni progresso della medicina, si svelano nuovi modi di morire insieme a nuovi modi di diventare un indescrivibile fastidio per il prossimo. Con il progresso della biotecnologia si rimanda il giorno della resa dei conti e la vecchiaia diventa una realtà sempre più diffusa al punto che, entro pochi decenni, ci saranno società nelle quali la maggioranza delle persone avrà più di 50 anni.
Il secondo principio della termodinamica, che dice che l’entropia è in continuo aumento, sembra dare per implicito che tutti i sistemi ” noi stessi compresi ” saranno a lungo andare casuali e che quindi la cosa giusta da fare è accettare la vecchiaia e le malattie che l’accompagnano con la maggiore serenità possibile. Sarà più facile per tutti adeguarsi a questo comportamento assistendo gli anziani e il loro invecchiamento con saggezza e dignità. Adottando la saggezza, gli anziani stessi si rendono utili ai giovani, assicurandosi l’unico genere di sopravvivenza su questa terra dopo la morte che è l’affettuoso ricordo da parte di coloro che sono ancora vivi. Questo era il pensiero generalmente condiviso, almeno fino a quando Aubrey de Grey, molto controverso «biogerontologo teoretico», come egli stesso si definisce, ha deciso di rinnegarlo totalmente. La risposta ai problemi morali della longevità, sostiene con convinzione è quella di sostituire la longevità con l’immortalità, così che tutti abbiano la possibilità di essere eternamente giovani. L’ossessione di de Grey di un elisir di eterna giovinezza, che è stata descritta da Sherwin Nuland nel n. X di «Technology Review», edizione italiana, rappresenta senz’altro un caso estremo di fiducia nella tecnologia. La decadenza, sostiene de Grey, è reversibile: se si introduce in un sistema energia sufficiente, l’ordine può essere preservato indefinitamente. Nel caso particolare dell’invecchiamento, dobbiamo invertire tutti i processi che portano al suicidio collettivo di una intera colonia di cellule umane. Si tratta di un ordine incredibile, ma non tale da potere essere escluso a priori.
Cosa succede se il progetto di de Grey si realizza? L’atteggiamento «Io» si rallegra senz’altro al pensiero dell’immortalità, ma quello «Noi» consiglia prudenza. Si immagini un mondo in cui ogni essere umano, schivando qualsiasi incidente, potesse campare in eterno. Anche se il pianeta fosse in grado di sopportare il peso dei suoi passeggeri immortali, il loro numero dovrebbe essere drasticamente limitato; la riproduzione, oltre un certo limite, vietata; le risorse dovrebbero essere distribuite con parsimonia e le carestie evitate; con la conseguenza che gli esseri immortali sarebbero pericolosi, specialmente gli uni verso gli altri. Dovrebbero acuire l’ingegno per difendersi dalle aggressioni e la loro abilità sarebbe di gran lunga superiore a quella di qualsiasi concorrente mortale e avrebbe la meglio su qualsiasi cosa servisse per sopravvivere. Insomma, la vita tra esseri immortali sarebbe terrificante; dipenderebbe probabilmente da un rigido sistema totalitario di controllo che vieterebbe qualsiasi forma di felicità umana, perfino mettere al mondo figli e amarli. Induriti da secoli di cinici rapporti di sopravvivenza, i cupi predatori si aggirerebbero gli uni in cerca degli altri, rincorrendo piccoli e smilzi vantaggi, uniche cose di qualche valore in un mondo dove tutto sarebbe assegnato da un comitato di «mastini» immortali.
La questione morale
Oggi possiamo dire che il mondo dell’arte e della letteratura si è sempre occupato di questo punto. Poesia, teatro, pittura e musica ci trasmettono la visione di una mortalità inestricabilmente intrecciata con le vicende umane; ci mostrano che virtù e amori sono virtù e amori di creature mortali; che tutto ciò che ci spinge ad amare il prossimo, a sacrificarci, a fare atti eroici trova un fondamento nel presupposto che siamo vulnerabili e di passaggio, che la nostra pretesa sulle cose di questo mondo è solamente transitoria. Partendo da queste premesse Leon Kass ha formulato il concetto di blessings of finitude, benedizioni della limitatezza, basandosi sull’intimo legame che esiste tra ciò che per noi ha valore e la fugacità della vita.
Di tutt’altro parere è Aubrey de Grey. Tempo fa dichiarò a Sherwin Nuland ( si veda l’articolo in Technology Review, n. X/ 2006) che il diritto di vivere quanto a lungo si vuole è il diritto più importante del mondo. De Grey passa sotto silenzio tutti i dubbi morali che accompagnano la sua missione di biogerontologo, affermando che è convinto di avere un dovere morale di continuare sulla strada intrapresa. Quale beneficio più grande può essere offerto all’umanità di quello che sconfigge la sventura di Adamo e vince la più grande paura dell’umanità? Per quanto riguarda le generazioni future e l’amore per i figli, secondo de Grey la riproduzione è stata finora semplicemente una cosa fatta, il risultato di un indottrinamento di valori che per gli immortali non hanno alcun senso.
De Grey sostiene che abbiamo il dovere morale di dare alle persone la possibilità di scegliere quanto a lungo vogliono vivere. Sherwin Nuland giustamente ribatte che al pari di tutte le altre sue affermazioni, anche questa, cioè il concetto di una assoluta libertà di scelta individuale, viene fatta senza tenere conto delle implicazioni biologiche e sociali e, come ogni altra cosa, viene trattata in vitro piuttosto che in vivo. Ma allora, non è quella la direzione verso la quale stiamo andando? Gli abitanti dell’audace nuovo mondo di Huxley vengono prodotti in vitro e non escono mai realmente dalla provetta. Essi hanno, è vero, una assoluta libertà di scelta, ma è una libertà illusoria perché nel loro incontro con la realtà si presentano con esperienze e ambizioni pre-programmate. Non c’è spazio in loro per virtù, amore, sacrificio in quanto non sono responsabili né di ciò che gli accade né di ciò che fanno. Il selvaggio solitario, addolorato per sua madre e con lo spirito nutrito da Shakespeare, reagisce allo spettacolo di un mondo siffatto suicidandosi, perché è un mondo senza senso, dove le categorie morali non si usano più.
La morale riguarda anche il corpo
Il romanzo di Huxley ci ricorda che i concetti morali si sviluppano in vivo e non in vitro. Il loro terreno ideale per attecchire è l’atteggiamento Noi, che è minacciosamente assediato dalla sconsiderata ricerca di dominio. Quando intravediamo situazioni che alterano la natura umana al punto che tutti i tratti distintivi che la morale tradizionale regolava ” l’aggressione, la fragilità, la paura dell’oblio, l’amore, la speranza, il desiderio ” o scompaiono o subiscono una trasformazione totale, allora evochiamo mondi incomprensibili e che di fatto non ci appartengono. Se ci trovassimo, come il selvaggio di Huxley, sbattuti su questi lidi immaginari, saremmo disorientati e disperati come lui. Il diritto alla vita non è il diritto all’immortalità, ma il diritto a vivere e morire senza disagi, il diritto a realizzare i progetti di cui gli esseri mortali naturalmente si fanno carico, tutti fondati sulla loro transitorietà. Parlare di un diritto alla vita in un mondo dove la vita è libera dalle condizioni che le conferiscono un preciso significato, è come estrarre un concetto dal contesto che gli conferisce il suo senso preciso.
Anche se l’immortalità rimane sempre fuori dalla nostra ricerca, il progresso della biotecnologia ha innescato problemi morali di tale natura da invadere con la loro drammaticità la coscienza comune. La chirurgia estetica, i trapianti di organi, i farmaci contro la depressione e così via hanno cominciato a modificare il concetto di corpo e la sua relazione con l’individuo.
Cartesio è stato spesso criticato per aver fatto una distinzione troppo radicale tra mente e corpo al punto da rendere impossibile comprendere come potesse esserci qualche connessione tra i due. Ma anche lo stesso Cartesio ha fatto sentire la sua protesta, dicendo : Io non sono semplicemente alloggiato nel mio corpo come un nocchiero sulla sua barca, implicando con queste parole che c’è un’intima connessione tra corpo e mente e che perciò è totalmente naturale dire del mio corpo che non è mio, ma è me stesso. Possiamo allora sostenere che quanto succede al mio corpo succede per mia espressa volontà?
D’altra parte, l’idea che sia il corpo sia il cervello siano una proprietà sta guadagnando terreno. La chirurgia estetica (per la quale gli americani spendono 10 miliardi di dollari all’anno) e i farmaci antidepressivi danno la possibilità di alterare corpo e cervello, di apparire con un volto nuovo e persino con una nuova personalità. Malgrado tutto, in qualche modo il nucleo dell’identità individuale viene conservato al punto da poter ancora affermare che il nuovo corpo e il nuovo carattere appartengono a quell’individuo e non a un altro. In un modo o nell’altro però, si instaura una separazione tra il sé e il corpo che potrebbe portarci ad accarezzare idee di una libertà senza limiti. E il nuovo mondo, abitato da corpi sempre più perfetti e da tanti sé sempre più avvizziti, sarà dominato dall’atteggiamento Io, un mondo cioè in cui l’atteggiamento Noi verrebbe ridotto al silenzio. Si immagini una razza umana che non sia in grado soltanto di vivere in eterno, ma anche di alterare a volontà la propria fisionomia e perfino il proprio carattere distintivo, che sia in grado di reingegnerizzare il proprio corpo, prendendo pezzi di ricambio da altri o da embrioni, magari da embrioni allevati ad hoc. Con tutta probabilità, dato che i figli saranno in ogni caso una minaccia nel mondo al quale queste persone appartengono, gli embrioni umani saranno generati solamente per fornire pezzi di ricambio e non potranno godere di quel diritto alla vita che Aubrey de Grey promette a tutti per sempre. Senza dubbio questi nuovi esseri umani lotteranno per superarsi l’un l’altro in bellezza, forza, buon umore e in tutti gli altri tratti che portano successo nella vita, e diventeranno col tempo tutte persone ugualmente di successo, il che significa, naturalmente, di nessun successo.
Possiamo costruire altri scenari futuristici di questo genere e non c’è limite alla nostra immaginazione. Le tecnologie che si dischiudono davanti a noi ” clonazione, ibridazione, manipolazione genetica ” offrono possibilità affascinanti e al contempo spaventose. I ricercatori hanno già impiantato varie sequenze genetiche umane nel DNA dei topi, in modo da provocare malattie precedentemente osservate solo negli esseri umani, il tutto con il meritevole scopo di trovare una cura. Questi esperimenti inevitabilmente evocano racconti di fantascienza su ibridi di uomini e animali. La gente comune, di fronte a simili scenari, alzerà le mani e dirà Basta. Questa è stata la reazione del Parlamento britannico l’anno scorso quando propose una legge per impedire l’ibridazione di embrioni umani. Stranamente, tuttavia, gli scienziati che già lavoravano al progetto, si lamentarono che il governo non ne aveva capito l’importanza, che si sarebbero concretizzati nuovi progressi fondamentali nella medicina e che la ricerca avrebbe portato una speranza a molti esseri umani colpiti da mali attualmente incurabili. In altre parole, il progetto doveva essere permesso, dal momento che i risultati potevano essere positivi.
Arroganza e religiosità
Sherwin Nuland giustifica la propria distanza da queste pratiche di rimodellamento radicale del destino umano con la personale formazione spirituale laica. So quello che intende dire. Le persone religiose che considerano il tempo trascorso su questa terra un passaggio non hanno difficoltà a capire che alcune scoperte scientifiche non dovrebbero essere realizzate. La morte non è forse arrivata su questa terra a causa dell’avidità di conoscenza del nostro capostipite? Ci sono tecniche che non avrebbero dovuto essere sviluppate, in quanto gli uomini nel loro lavoro di ricerca giocano un ruolo che non gli compete, quello di Dio, come fece Adamo quando cercò di discernere il bene dal male per propri fini egoistici. I greci chiamavano questo atteggiamento arroganza e anche offesa alla religione. L’arroganza, credevano, attira la vendetta dell’Olimpo. La pietas dei romani corrisponde, a mio avviso, alla riluttanza spirituale laica espressa da Nuland. La religiosità è una sorta di umiltà metafisica, cioè un riconoscimento della nostra dipendenza e fragilità e anche dei pericoli che derivano da una eccessiva curiosità nei confronti dei segreti della natura. Si tratta di un’altra interpretazione dell’atteggiamento Noi di cui parlo in questo saggio, l’atteggiamento che ci chiede di rispettare i punti fissi che non dovrebbero mai essere rimossi dal posto loro assegnato nel nostro universo morale.
Trattando il problema in questi termini, tuttavia, lo rendiamo irrisolvibile. L’atteggiamento Noi, che pone dei limiti al nostro desiderio di conoscenza e potere, è un atteggiamento che per molte ragioni vogliamo acquisire. Ma non è, in realtà, un atteggiamento ragionevole. Al contrario, implica un profondo rifiuto della ragione, una determinazione nel tracciare dei confini e nell’arrestarci di fronte ai punti prefissati dalle nostre intuizioni morali. Fermati è tutto ciò che sa dirci, ma questo imperativo non è convincente per chi non lo accetta come se fosse un tabù di una religione primitiva. A dire il vero, si potrebbe replicare che il concetto di religiosità dei romani non è in realtà più avanzato rispetto a quello dei tabù dei polinesiani: si tratta semplicemente di nomi diversi attribuiti alla stessa paura, si tratta della stessa reticenza, della stessa offesa alla conoscenza e al progresso. Come esseri razionali non abbiamo altra scelta che percorrere la strada che la conoscenza ha aperto davanti a noi.
Inoltre, precludendoci alcune ricerche, ci priviamo della vera conoscenza di cui abbiamo bisogno se siamo convinti che alcuni punti fissi siano realmente da salvaguardare. Il nostro pianeta può essere aiutato solo se troviamo delle alternative ai combustibili fossili e le troviamo presto. La biotecnologia può anche apparire come una minaccia per la natura umana, ma può anche essere l’ancora di salvezza per la terra, in quanto dal suo sviluppo si aprirà una delle strade più promettenti per ottenere risorse energetiche pulite e rinnovabili, come per esempio il combustibile prodotto dalla biomassa attraverso una mirata manipolazione genetica di alcuni microrganismi. E se la biotecnologia appare come una minaccia per l’umanità, ci dovremmo ricordare che fa proprio parte della nostra natura correre dei rischi, adattandola ai nostri desideri, vuoi per migliorare la bellezza, vuoi per aumentare la conoscenza o il potere. Perché dovrebbe essere accettabile ottenere questi risultati con l’abbigliamento, i libri e l’esercizio e non con il trasferimento di un gene o due? Se si considera una violazione della natura umana manipolare i geni, non è pure una violazione della natura umana impedire che ciò avvenga? Siamo liberi, dopo tutto, e i tentativi di limitare la nostra libertà, quando non siano giustificati da motivi urgenti, sono umilianti.
Il futuro della libertà
Ma, cosa succede della libertà nel futuro postumano? La preoccupazione di Leon Kass che la manipolazione genetica possa permettere un nuovo genere di dispotismo da parte di una generazione su quella successiva, è ampiamente condivisa. Se Jack può impiantare dei geni in Jill, facendola crescere in vitro secondo un progetto da lui stesso messo a punto, che cosa rimane della libertà di Jill e come Jill reagirà nei confronti del suo creatore? Per essere precisi, Jill non sarà una schiava, ma molti metteranno in dubbio la sua capacità di essere veramente se stessa proprio per il fatto di essere una creatura ingegnerizzata.
Quando Mary Shelley creò con la sua immaginazione il mostro solitario di Frankenstein, era così arguta da intuire che se il mostro doveva essere una replica umana, avrebbe dovuto avere altre caratteristiche oltre alle sembianze psichiche e fisiche della nostra specie. Avrebbe dovuto essere capace di speranza e disperazione, di ammirazione e disprezzo, di amore e odio. Nel suo romanzo il mostro è diventato malvagio, come tu o io potremmo diventare malvagi, non perché fosse fatto in quel modo, ma perché cercava l’amore e non lo trovava. Come potrebbe accadere anche a noi, nel mostro erano state programmate quelle capacità morali e quelle esigenze emotive che sono il fondamento della libertà umana. Non c’era bisogno che Frankenstein impiantasse nel mostro qualche barlume di trascendenza per dotarlo della libertà. Il processo è stato consequenziale: con la parola viene la ragione, con la ragione la responsabilità e con la responsabilità tutte quelle emozioni e stati d’animo che fanno sentire reale la libertà.
Libertà razionale significa capacità di agire in base a decisioni consapevoli, dopo avere valutato razionalmente le diverse opzioni, e di conseguenza diventare responsabili verso gli altri delle proprie azioni. Se partiamo dal presupposto che questo sia il significato di razionalità, tutti gli esseri umani ne sono dotati. Noi non sottraiamo la libertà ai nostri figli con la manipolazione genetica più di quanto la sottraiamo scegliendo i nostri partner sessuali in base alla bellezza, alla forza o all’intelligenza, aumentando in tal modo la probabilità che queste caratteristiche vengano loro trasmesse. Qualsiasi cosa Jack faccia per manipolare Jill, lei sarà libera di contrastare i propositi di lui e di usare i propri poteri contro di lui. Essendo Jill responsabile nei confronti di Jack, lo costringerà a esserlo nei propri confronti. La cosa peggiore che Jack potrebbe fare a Jill è ciò che Frenkenstein ha fatto al suo mostro, cioè considerarla in qualche modo al di fuori della sfera della libertà umana.
La sfera della libertà umana non è quella di una libertà senza limiti. È la sfera della responsabilità, in cui le persone esercitano la propria libertà rendendo conto dell’uso che ne fanno. La libertà si realizza attraverso scelte razionali, in determinate condizioni sociali, e Jack si rende responsabile del futuro di Jill dal momento preciso in cui sceglie di influenzarlo. Se accettiamo questa considerazione, allora il genere di ingegneria genetica che Kass paventa potrebbe essere una sfida meno pericolosa di quanto egli crede: infatti non potrà alterare ciò che è immutabile nella natura umana, proprio in quanto una piccola parte in noi è immutabile a prescindere da questa caratteristica della libertà che ci distingue e che fa in modo che sia impossibile agli altri controllare ciò che facciamo. E Jill, quando esce dal laboratorio in cui è stata allevata, non avrà solo l’atteggiamento Io, che implica la libertà, ma anche l’atteggiamento Noi, che la induce a guardarsi intorno e a chiedersi a quale specie lei appartenga e quale ambiente le appartenga. Potrebbe avere il destino del mostro di Frankemstein di offrire amore senza mai riceverne. Ma la probabilità che riesca ad adattarsi bene al suo mondo è pari a quella che noi riusciamo ad adattarci al nostro e così pure la probabilità di essere respinta dai processi che l’hanno creata è uguale a quella che anche noi potremmo esserlo. E, quando sarà il suo turno di avere figli, lascerà che il suo dio si occupi del loro patrimonio genetico.