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    Facce da salvare, facce da perdere

    Le reti sociali come soluzione o come problema?

    di Gian Piero Jacobelli

    Per fortuna, la Rete cannibalizza se stessa. Proprio la sua velocità di crescita esponenziale e le impulsive, ma effimere sollecitazioni che produce nei suoi utenti, posseggono la virtù magica di accelerare anche i processi di metabolizzazione e di cambiamento al proprio interno. Quando qualche fenomeno comincia a diventare preoccupante, sul piano dei coinvolgimenti sia individuali sia collettivi, basta aspettare e i nuovi arrivati – i nuovi servizi, le nuove proposte, i nuovi soggetti – finiscono per scalzare i vecchi. Forse non è bene che ciò avvenga, forse in questa fluidità o volubilità comportamentale si può cogliere una insidiosa carenza identitaria, alla quale in effetti fa riscontro un’altrettanto eccessiva e spesso pretestuosa ricerca identitaria, quasi che l’identità sia un prodotto da supermercato della New Age e non il frutto di una persistente struttura comunicativa e relazionale. Ma tant’è. Prendiamo la progressione della Rete come viene, aspettando la prossima: la prossima invenzione, la prossima illusione; comunque, la prossima volta.

    Qualcosa del genere sta avvenendo per Facebook, fondato il 4 febbraio 2004 da Mark Zuckerberg in ambito universitario, per poi estendersi alle scuole superiori e alle grandi aziende, sinché dall’11 settembre 2006 può parteciparvi chiunque abbia più di 13 anni, finendo così per coinvolgere potenzialmente tutti gli utenti di Internet. Il nome del sito si riferisce agli annuari (facebooks) con le foto degli iscritti, che alcune scuole e università americane pubblicano all’inizio dell’anno accademico e per agevolare le conoscenze e le relazioni all’interno del campus. Ma, dopo l’elezione del nuovo Presidente degli Stati Uniti, Facebook è diventato anche un protagonista indiscusso (indiscutibile? Questo è il problema!) della vita politica e, come notava qualche settimana fa Stefano Bartezzaghi, la politica italiana – e, se è per questo, anche l’accademia — sta “cercando il modo di farsene una clava”, un poco colpendo gli avversari e un poco colpendo soltanto se stessa.

    Dentro e fuori, prima e dopo

    Qualche mese fa, subito dopo la campagna presidenziale di Obama, tutti, proprio tutti, politici e accademici, analisti e operatori, facevano a gara per cantare le lodi dei nuovi social netwoks: così nuovi che il discrimine, l’inversione dell’ondata di marea tra il cosiddetto primo Internet e il cosiddetto secondo Internet veniva concordemente posto a cavallo del millennio, pochi, pochissimi anni fa, neppure un decennio, proprio in ragione della crescita in Rete delle funzioni di socializzazione rispetto a quelle di informazione e di scambio.

    Ne abbiamo parlato nell’editoriale del nostro ultimo fascicolo del 2008, prendendo spunto da alcuni servizi della edizione americana di “Technology Review: servizi interessanti, anche perché apparivano meno acritici ed enfatici di tanti altri, dal momento che segnalavano due ordini di problemi, tanto emblematici delle difficoltà attraversate di tempo in tempo della Rete, quanto sintomatici di come queste difficoltà vengano spesso considerate solo per ragioni di moda o di convenienza.

    Il primo di questi problemi riguarda il difficile rapporto tra l’incontro virtuale e l’incontro reale. Se a Obama sono davvero serviti i social networks, e non c’è motivo di dubitarne, soprattutto a fronte delle scelte di comunicazione attuate dai suoi concorrenti, il fattore competitivo non è però consistito nel nuovo mezzo in quanto tale, ma, da un lato, nel messaggio forte che quel nuovo mezzo ha contribuito a diffondere e, dall’altro lato, nella associazione dei nuovi e dei vecchi mezzi: un’associazione, tra incontri in Rete e riscontri faccia a faccia negli spazi pubblici e privati messi a disposizione dagli attivisti, che ha rappresentato la vera carta vincente della campagna di Obama e, in certa misura, anche un modello esemplare di come la logica dei new media, contro ogni controproducente e talvolta morbosa esclusività, debba restare in continuità con la logica della vita reale.

    Il secondo di questi problemi riguarda il difficile rapporto tra il prima e il dopo, la possibilità di trasformare la Rete da strumento promozionale a strumento decisionale, proprio perché, se si tratta di una estensione tecnologica delle funzioni delle vita reale, sembra inevitabile che, chi è stato sollecitato dalla Rete a partecipare a un nuovo movimento, ideologico o politico, pretenda poi di ottenere, proprio grazie alla Rete, una possibilità di decidere meno mediata dalle tradizionali forme democratiche o non democratiche di rappresentanza.

    Per dirla altrimenti, una volta acquisita come concreta e fattiva possibilità quella di esprimere sistematicamente il nostro pensiero sulle questioni più diverse che ci vengono sottoposte nella fase di messa a punto del programma e di attivazione del consenso, perché non dovremmo desiderare di continuare a manifestare la nostra opinione, in maniera altrettanto determinante, anche quando, conquistato il potere, si tratta di passare dalle parole ai fatti? Questo è certamente il problema più delicato perché, in tutta evidenza, è proprio quello che trova maggiori difficoltà di riscontro operativo: pensiamo se Obama, travolto dalle pressioni della crisi economica e dello scacchiere internazionale, dovesse misurarsi sulle decisioni da prendere con quel popolo democratico che lo ha eletto. A dimostrazione, si potrebbe aggiungere, che il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi.

    Ricadute sociali o ricadute tout court?

    A distanza di alcuni mesi dal grande evento elettorale e mediatico americano si cominciano, in effetti, ad ascoltare valutazioni meno enfatiche di quanto non le avesse rese la pressione di un successo al quali tutti volevano partecipare: se Obama poteva farlo, perché noi no? Valutazioni diverse, diversamente orientate e diversamente motivate, ma valutazioni in cui il fenomeno di Facebook viene relativizzato secondo almeno tre prospettive concomitanti: Facebook non costituisce la nuova scena politica; Facebook non rende come dovrebbe; Facebook non unisce ma divide.

    Abbiamo ascoltato queste valutazioni, e altre altrettanto interessanti e problematiche, in un recente convegno promosso a Roma da ISIMM e dalla Università di Roma Tre, che avevano già promosso un altro incontro, alla fine dello scorso anno, nel quale si era discusso d elle novità mediatiche della campagna di Obama. Questa volta, la relazione introduttiva di Enrico Menduni, Presidente di ISIMM e docente di Roma Tre, metteva a fuoco i punti nodali cui abbiamo accennato: i soggetti che sopravvivono alla bolla speculativa di Internet del 2000, “sono contraddistinti da un protagonismo molto più forte degli utenti, non più timidi visitatori di un portale, ma prosumer (producer più consumer, secondo una fortunata espressione di Alvin Toffler), che si relazionano a vicenda, inseriscono i propri contenuti – sempre più multimediali e non solo scritti – e li mettono a disposizione degli altri”. L’altra faccia del protagonismo multimediale del prosumer, ha giustamente proseguito Menduni, “è la disintermediazione: Facciamo da soli quello che prima potevamo fare solo grazie a dei mediatori sociali: i media (ma anche i partiti e altre organizzazioni sociali ‘pesanti’)”.

    Anche Sebastiano Bagnara, dopo avere osservato che Facebook sarebbe un luogo per “identità episodiche”, avallando così, almeno apparentemente, una sorta di congruità della Rete con la crisi e la ricerca identitaria contemporanea, ha tuttavia finito per smentire che ci si stia muovendo “verso una società che vive in uno spazio unico”: “si osserva invece il principiare di un fenomeno peculiare: le persone, in carne e ossa, tendono ad abitare luoghi specifici, caratterizzati dalla capacità di soddisfare i loro bisogni”. Si tratta di luoghi di lavoro o di svago, luoghi di cultura o di spettacolo, dove si può arrivare attraverso la Rete, ma dove la gratificazione nasce proprio dall’esserci “in carne e ossa”. Luoghi reali, che i luoghi virtuali cercano di imitare: “con ogni probabilità, Facebook è uno di questi luoghi, con alcuni tratti regressivi”.

    Ha ribadito Gianni Celata, a proposito delle problematiche del file sharing, che la Rete va intesa essenzialmente come un canale multimediale di condivisione, in cui si muovono interessi molteplici utili a catalizzare le aggregazioni socioculturali, esattamente come avviene con il passa parola nella tradizionale ricerca di “luoghi comuni”, sedi o locali di incontro e di riunione.

    A questo proposito, e nonostante che Facebook tenda a trasferire sempre maggiori componenti dalla vita reale in quella virtuale, ha giustamente ribadito Roberto Maragliano che “stiamo parlando del nostro modo di stare nel mondo”: problemi reali e non virtuali, che includono anche quelli di imparare a stare in Rete, così come abbiamo dovuto imparare le variabili e successive etichette mediatiche.

    Ma affermare che c’è una sostanziale continuità tra i comportamenti in Rete e i comportamenti fuori dalla Rete, non significa ignorare che in ogni ambito si possono incontrare difficoltà o si richiedono comportamenti peculiari. Sara Bentivegna, che da vari anni si occupa di comunicazione politica e di new media, ha presentato una interessante ricerca, che riflette in concreto quanto andiamo dicendo. Dopo il successo di Obama, anche in Italia si è registrata una ricorsa alla Rete e in particolare a Facebook, che ha fatto registrare regimi di crescita rilevanti, in linea con quanto sta avvenendo nel resto del mondo. Tuttavia, analizzando le caratteristiche di questa ricorsa, non si può ignorare come i gruppi politicamente orientati, creatisi in Facebook, siano tutti “contro”, contro qualcuno o contro qualcosa, e che questi gruppi non manifestino alcuna particolare attitudine al confronto e alla discussione, ma si limitino a fare outing, una dichiarazione di sé, una perentoria affermazione di presenza, senza nulla in comune con forme di partecipazione.

    Dalla violazione della privacy alla esibizione della intimità

    Queste considerazioni trovano un preciso e preoccupante riscontro – sempre che ci sia motivo di preoccuparsi per ciò che avviene, e non semplicemente di prenderne atto, per reagire secondo i porpri intendimenti e le proprie attitudini – in alcune constatazioni che erano emerse da una inchiesta sulle nuove reti sociali, pubblicata nel quinto fascicolo dello scorso anno da questa edizione italiana di “Technology Review”, in cui si segnalavano alcuni paradossi relazionali, nell’ambito di scenari per la verità altrettanto paradossali, provocati anche dalle crescenti perplessità economiche, che sembravano riecheggiare le preoccupazione della bolla speculativa, se non altro perché anche Facebook si rivela poco trasparente e proprio il sovraccarico tra socialità e partecipazione rende il sistema imprevedibile, nella misura in cui ciò che è centrale tende a diventare marginale e viceversa.

    Molte preoccupazioni emergono in tema di privacy, perché Facebook di fatto serve gli interessi che hanno bisogno di targettizzazione: ma si tratta di preoccupazioni a nostro avviso persino troppo insistite, in quanto l’adesione a Facebook, come ogni altro sito sociale reale o virtuale, è frutto di una libera scelta e, tra l’altro, oggi, almeno per quanto concerne la Rete, si tratta di scelte consapevoli e competenti. Più della privacy, in effetti, preoccupa la distorsione valoriale. Le logiche di catalizzazione degli interessi sdoganano e agevolano ogni genere di esibizionismo.

    Nella inchiesta sul futuro del Web della nostra rivista, alcune risposte in questo senso lasciavano molto perplessi. La gente sembra morire dalla sconfinata voglia di esibire la propria intimità, come in un interminabile reality show. Ne risultano alterati in maniera significativa equilibri e relazioni di responsabilità tra pubblico e privato, in ambito sia reale sia virtuale. In ambito reale, la gratificante personalizzazione virtuale non riduce, ma tende ad accentuare la delega politica. In ambito virtuale, c’è il rischio che, per tutelare la privacy, il futuro del Web diventi il suo passato, con l’abbandono di servizi aperti a favore di comunità blindate, intrise di spirito paranoide.

    Tuttavia, nella stessa inchiesta, una speranza veniva da quanti prevedevano a breve termine, forse tra una decina di anni, il Web mobile, come la radio o il telefono. Quando il Web andrà in giro, si creeranno davvero nuove opportunità di incontrarsi fuori del Web e dovremo ancora una volta fare attenzione a come ci mostreremo. Scenari paradossali, abbiamo detto, ma dialetticamente suggestivi, perché, come concludeva Bartezzaghi, da temere sono soprattutto quelli che “hanno la face come il book”.

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