Essere virale non va più di moda

Durante questa pandemia, i media hanno iniziato a parlare sempre meno di “viralità” su Internet e non solo perché il termine è strettamente collegato al covid.

di Abby Ohlheiser

Per anni si è utilizzata la frase “il fenomeno è virale” per descrivere qualcosa che diventa  popolare su Internet, ma la pandemia globale, con il riferimento al virus reale, sta cambiando tutto. Ancora più complessa la situazione quando si parla di contenuti “virali” legati alle teorie del complotto sul covid, come nel caso di Plandemic , il documentario che ha ottenuto milioni di visualizzazioni su Facebook e YouTube la scorsa settimana prima che le piattaforme iniziassero a rimuoverlo.

In questi ultimi mesi, ogni volta che scrivo o parlo di qualcosa di “virale”, vado alla ricerca di un altro modo per dirlo. Un paio di settimane fa, ho iniziato a chiedermi se fosse il caso di usare la parola in questo modo figurato. Si scopre che non sono solo. “Evito questa parola”, mi ha detto Peter Sokolowski, lessicografo e direttore dei dizionari presso la Merriam-Webster. Lo stesso Sokolowski ha indagato sulla questione e ha chiesto a uno dei suoi colleghi, il linguista computazionale Ben Mericli, di aiutarlo a capire se altre persone avessero rinunciato a utilizzare l’aggettivo “virale” su Internet.

Per fare ciò, Mericli ha scelto quattro frasi che di solito si riferiscono a virus biologici (malattia virale, infezione virale, carica virale, febbre virale) e quattro frasi che di solito si riferiscono a contenuti Internet (diventare virale, video virale, posta virale, foto virale). Ha esaminato la loro frequenza in un ampio database di articoli dal 1 ° gennaio al 30 aprile di quest’anno e lo ha confrontato con lo stesso periodo di tempo nel 2019.

I risultati sono stati abbastanza chiari: l’uso metaforico di “virale” è chiaramente diminuito quest’anno in favore dell’uso letterale di “virus”. “Dall’inizio dell’epidemia, in generale la parola virus è stato utilizzata più spesso, con un aumento dovuto interamente all’uso letterale”, ha detto in una e-mail. “In questo senso, credo che sia ancora più sorprendente il calo del significato metaforico”. (Si veda grafico)

In realtà, molte parole di origini medica o epidemiologica sono in grado di convivere nella nostra lingua con i loro significati originali o letterali, ha detto Sokolowski. Per esempio, una risata e una malattia possono essere “contagiose”. A volte non ci si rende nemmeno conto che si sta usando una espressione con tali radici.

“Quando le persone utilizzano la parola  vetriolo non sanno che il riferimento è a un composto chimico che brucia la pelle umana”, egli ha aggiunto (il vetriolo era originariamente un termine per l’acido solforico). Ma “virale” è diverso; i significati sono correlati, ma non uguali. Ci sono storie virali e infezioni virali e conosciamo il significato di entrambe le espressioni. Ma, parlando con altre persone, mi sono reso conto che ci sono altri motivi per chiedersi se “virale” sia l’aggettivo appropriato per i contenuti su Internet.

Popolarità manipolata 

Indignazione “virale”, video “virali”, post “virali” e momenti “virali” fanno parte del linguaggio di Internet sin dai suoi inizi. Il termine stesso deriva dal marketing virale, che risale ai tempi pre-social-media con agenzie pubblicitarie che promuovevano campagne non urlate o si affidavano al passaparola. Ma una volta che il  fenomeno si è spostato online, la “viralità” è diventata qualcosa di più accessibile e democratico: un fumetto divertente, un video che scatena l’ilarità, un post di successo sul blog. “Virale” è diventato un modo per indicare implicitamente qualcosa di condiviso con grande copertura mediatica. 

Ma questa popolarità emergente non è necessariamente autentica: gli algoritmi incentivano i contenuti con cui gli utenti interagiranno, accelerandone la diffusione e le persone sono diventate davvero brave a manipolare il funzionamento dei social media per diffondere contenuti “odiosi” o potenzialmente pericolosi. Ci sono molti esempi e, nonostante gli sforzi per fermare il flusso della disinformazione, le strategie progettate per dirottare l’attenzione continuano a funzionare.  

Plandemic nasce dalla spinta dei gruppi  no-vax che si sono legati ai teorici della cospirazione. Il loro successo è stato enorme. Nelle ultime settimane, noti personaggi no-vax hanno raccolto milioni di visualizzazioni concedendo interviste ad altri YouTuber con grande seguito, alimentando i sentimenti politici della destra contraria al blocco sociale e sfruttando le loro reti online consolidate per aumentarne la diffusione. 

“Non c’è modo di proteggersi” 

Whitney Phillips, docente di comunicazione e studi retorici all’Università di Syracuse, studia come la disinformazione e le idee estreme vengano amplificate per raggiungere un pubblico sempre più vasto, in particolare attraverso la copertura mediatica. Quest’anno ha scritto un libro insieme a Ryan Milner in cui vengono impiegate metafore ecologiche – per esempio, quella sull’inquinamento – per aiutare a spiegare l’universo digitale in cui si diffondono cattive informazioni. 

“Dobbiamo rivolgere uno sguardo diverso al nostro ecosistema di informazioni”, mi ha detto Phillips. “Le metafore che usiamo possono aiutare a modellare il nostro pensiero sulla nostra responsabilità”. “Virale” potrebbe essere una buona metafora della diffusione della disinformazione, mi ha spiegato Phillips, se solo le persone usassero la parola correttamente. “Ma non lo fanno”, ha detto. E questo è particolarmente vero per i giornalisti che scrivono articoli sulla disinformazione. 

“Se si parla di una particolare campagna di disinformazione, si diventa necessariamente un corriere di quel virus”. Lo stesso vale per coloro che la condividono, sia che approvino, deridano o condannino. In altre parole, le persone potrebbero pensare di essere protette dai potenziali danni che la disinformazione su Internet può portare, ma molti sono portatori asintomatici di tali informazioni. 

“Non ci sono DPI”, ha detto Phillips. “Non c’è nulla che ti protegga se ne scrivi e ne parli”. Il disagio che sto provando a descrivere qualcosa di simile a Plandemic, inteso come fenomeno virale, quindi, ha delle basi. Ma non è che la parola in sé sia cattiva. Il problema nasce da come ci siamo ingannati nel credere che la “viralità” sia qualcosa che possiamo osservare senza farne parte, quando in realtà siamo i corrieri che aiutano a diffonderla.

 (rp)

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