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    Essere o non essere Marshall McLuhan

    Il centenario della nascita del grande massmediologo canadese può fornire l’occasione per avviare una verifica delle sue profezie tecnologiche.

    di Gian Piero Jacobelli

    Nel fascicolo scorso, Gianpiero Gamaleri, al quale dobbiamo una sistematica e preziosa opera di diffusione di Marshall McLuhan in Italia (si veda anche il suo Understanding McLuhan, Edizioni Kapper, 2006), ha formulato un altrettanto prezioso richiamo di attenzione nei confronti di uno dei più suggestivi intellettuali del Novecento, del quale stanno per ricorrere i trent’anni dalla morte (31 dicembre 1980) e i cento anni dalla nascita (21 luglio 1911).

    Gli anniversari, in questo nostro tempo di ineluttabile dimenticanza da palinsesto televisivo, svolgono una importante funzione di ripensamento di personalità il cui troppo rapido successo verrebbe altrimenti scontato con un altrettanto rapido recesso. Questo è stato, appunto, il caso di McLuhan, senza dubbio il più noto esploratore della ricorsiva (elettrica, elettronica, digitale) rivoluzione mediatica del Novecento, spesso «passato in proverbio» per i suoi brillanti aforismi e ricordato più per l’apparente capacità di semplificazione che per la esemplare capacità di cogliere in tutta la sua contrastata complessità il passaggio culturale di fine secolo.

    Nel ricordare e, se possibile, rileggere McLuhan, dobbiamo evitare, dunque, sia di ridurlo, letteralmente ai minimi termini, sia di farne il profeta di un mondo nuovo, che tanto nuovo non è ancora diventato. A guardare bene, un paradosso accompagna tutto il suo pensiero: per dirla in maniera formulare, il più eloquente e affascinante avvocato della mediazione, tecnologica e non soltanto, sembrerebbe ineluttabilmente affascinato dall’immediatezza di quanto è a portata di mano, anzi di orecchio. La sua riflessione sui media, protesi del corpo e della mente, si orienterebbe, infatti, verso uno scenario in cui tutto si risponde e si corrisponde in una sorta di «teatro del mondo» (la formula d’illustre ascendenza shakespeariana non è casuale, come vedremo) dove radio, televisione e computer dovrebbero costituire le condizioni di una convivenza armoniosa e solidale. In questo mondo elettrificato, elettronificato, digitalizzato (McLuhan tendeva a cogliere più le confluenze logistiche delle tre piattaforme tecnologiche, che le differenze funzionali), la società mediaticamente globalizzata sarà «tribale», ma non divisa in tribù: una vera e propria utopia, quella del «villaggio globale», del trionfo della differenza tollerante, della pace universale, addirittura della integrazione psichica collettiva.

    «Spero di vedere il pianeta e l’uomo stesso trasformarsi in una forma d’arte»: diceva McLuhan, anche se è difficile oggi condividere l’idea che essere nati in questa epoca sia un «dono prezioso».

    Indubbiamente convincente nelle sue diagnosi, McLuhan sembrerebbe spesso e volentieri avere sbagliato le prognosi, confondendo la mediazione con i media, con la sirena della tecnologia. Se così fosse, avrebbe fatto lo stesso errore che imputava al suo maestro di Toronto, Harold Adams Innis, in una introduzione alla edizione del 1964 di The Bias of Communication di quest’ultimo.

    Innis, a cui si deve la dimostrazione di quanto i media abbiano influenzato gli assetti culturali, dalle relazioni interpersonali alle visioni del mondo, non avrebbe capito – scriveva McLuhan , che la «tecnologia elettrica» decentrava e non accentrava come la «tecnologia meccanica» che l’aveva preceduta. Ma McLuhan sbaglierebbe allo stesso modo, ritenendo che tutti i «media elettrici» siano decentranti, anche quando, come la televisione, avvincono alla fittizia immediatezza dello schermo, escludendo nel «tempo reale» ogni concreta partecipazione e ogni coinvolgimento «tribale».

    Tuttavia, ci sembra giusto usare il condizionale perché, quando il vate della cultura post-alfabetica è tornato all’alfabeto, ha ritrovato e ribadito quel valore della mediazione in cui consiste il suo apporto più significativo: come McLuhan diceva di Innis, potremmo dire che anche McLuhan «ci ha mostrato in quale modo comprendere le culture». Per renderci conto di quanto problematica sia stata la sua percezione della mediamorfosi contemporanea, basta perseguirne l’originaria vocazione letteraria, volgendoci alla grande letteratura, sulla scorta dei numerosi riferimento dello stesso McLuhan.

    Si sa che McLuhan ha amato e studiato molti autori, antichi e moderni. Ma è in particolare per Shakespeare che l’istanza della mediazione, altrove apparentemente disattesa, torna a manifestarsi decisamente. In Galassia Gutemberg cita Re Lear e la nascita della terza dimensione in letteratura: Edgardo conduce il vecchio e cieco Gloucester sul ciglio di un abisso, descrivendolo in maniera gutenberghianamente realistica: un indizio dell’importanza che la visione aveva acquisito nel passaggio dal Medioevo al Rinascimento, ma anche di come, guardando, ci si possa spingere precariamente nel vuoto, perché lo sguardo aiuta a conoscere la realtà, ma può anche illudere e ingannare.

    Proprio all’inizio di Understanding Media, McLuhan cita anche Giulietta e Romeo: Shakespeare voleva profeticamente alludere alla televisione nella seconda scena del secondo atto, quando descrive una finestra che si illumina in alto? «Ecco: parla… e tuttavia non dice nulla»: non semplicemente la luce elettrica, a cui McLuhan accenna poco sopra, ma proprio la televisione, che si fa vedere, ma tace, inducendo il pubblico a guardare oltre il palcoscenico, verso il muto fondale che, nel teatro elisabettiano segna il limite di quanto avviene altrove. Cita poi Otello, in cui il dramma si compie, proprio a causa del terribile potere d’incantamento dei nuovi media: «Non vi sono forse incantesimi capaci di violare virtù e verginità?», irretendo lo spettatore nella aporetica nostalgia dell’origine.

    McLuhan conclude il suo percorso problematico attraverso le emergenze mediatiche shakespeariane riferendosi a un’opera meno nota, ma non meno significativa dal punto di vista che qui ci interessa: in Troilo e Cressida Shakespeare afferma che la vita dipende congiuntamente dalla «provvidenza» e dal «pensiero», dal concepire una cosa dopo l’altra e dal concepirle tutte insieme, come fa etimologicamente il logos. Solo quando l’esplorazione analitica e quella sintetica del mondo procedono insieme, sembra affermare McLuhan, si possono cogliere «i progetti nelle loro nude culle»: come dire che si nasce piangendo, ma che prima o poi bisogna aprire gli occhi e cominciare a parlare, se si vuole padroneggiare i media e non farsene padroneggiare.

    Quando McLuhan, attraverso Shakespeare, pensa egli effetti dei media, nella loro evoluzione storica, ne coglie tutta la relatività e, invece di presentarli in uno stringente rapporto di causa ed effetto con le metamorfosi culturali, li concepisce come l’orizzonte di riferimento di una istanza etica che si configura alternativamente come la provvidenza del pensiero e il pensiero della provvidenza. In questo senso, fra i tanti aforismi mcluhaniani, il più sollecitante ci sembra quello secondo cui «il contenuto di un medium è sempre un altro medium»: incessante implicazione meta-concettuale e meta-linguistica, che non consente fughe in avanti, ma soltanto un precario issarsi sulle proprie spalle, per vedere più lontano o per gridare più forte, quando possibile.

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