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    È di moda McLuhan?

    di Alberto Abruzzese

    Ogni volta in cui, negli ultimi anni – o forse dovrei dire negli ultimi decenni, dal momento che è scomparso circa trent’anni fa – mi sono imbattuto in qualche opera di Marshall McLuhan ne ho tratto una duplice e apparentemente contraddittoria impressione. Da un lato, l’impressione di una opportunità perduta, per la nostra cultura mediologica che soprattutto in questi ultimi decenni si è lasciata bloccare dalle insipide beghe ideologiche tra apocalittici e integrati (profetica distinzione di Umberto Eco, restata sempre ambigua, anche se assai più pregnante dopo, rispetto al momento in cui venne coniata): tale e tanta era la suggestione di un autore che si deve leggere a piccole dosi, come un libro sacro in cui ogni espressione, e quasi ogni parola, riserva innumerevoli sorprese. E lancinanti pensieri. Dall’altro lato (e vedremo infine perché solo “apparentemente” contraddittorio), l’impressione di un pensiero che ha fatto il suo tempo, ma non tanto perché privo di valore o fatalmente datato, quanto perché in quel pensiero, come in una sorta di maelstrom concettuale, erano passate, e avevano potuto manifestare tutta la loro potenzialità rivelatrice, le linee di forza di quanto hanno vissuto e predicato i maggiori pensatori tra Ottocento e Novecento. Quei pensatori che – da Freud a Simmel, da James a Benjamin – si erano affacciati per primi sul tempestoso mare della comunicazione, cercando di coglierne una immagine quanto possibile coerente, come nei quadri impressionistici dai quali bisogna prendere un poco le distanze per individuarne le figure. Nei confronti di questi pensatori, McLuhan ha svolto un prezioso, a volte indispensabile ruolo di catalizzatore, facendone venire a galla, per così dire, grumi di conoscenza ancora sparsi e incoerenti, così da metabolizzarli e trasformarli in alcuni fondamentali principi teorici. McLuhan ha elaborato e disseminato questi principi teorici – tesi a comprendere un’epoca sempre meno comprensibile e non a rimuoverla, come troppo spesso accade quando si fa ricorso all’insidioso impianto ideologico delle cosiddette idee generali – dentro una estesa e labirintica trama di erudita argomentazione, o nella forma contratta dell’aforisma. Sono in particolare il principio che i mezzi sono messaggi e il principio simmetrico che i messaggi sono i mezzi.

    I mezzi sono i messaggi

    Attraverso i mezzi si fanno visibili i soggetti e le relazioni, le parole e le cose che li abitano, i processi di cambiamento quali vanno emergendo in determinate forme simboliche e dunque sociali. Per esempio, la simultaneità di più punti di vista (obiettivo ben difficile per i metodi della scrittura a meno di non eccedere in un deliberato sforzo sinestesico) e la configurazione istantanea di una dimensione sensoriale che ha in se stessa la sua potenza affermatrice, sono secondo McLuhan gli elementi emergenti nell’industria culturale degli anni Sessanta, quelli che annunciano il progressivo rientro delle forme sociali nelle forme di vita dell’uomo tribale: «un uomo che non possiede un punto di vista privato per il semplice fatto che non “vede” l’esperienza, e non si pensa come un “punto”. Concepisce invece ogni singola persona come contenente, in simultaneità, molti “sé”, tutti fluidi, e tutti, ciascuno singolarmente, presenti».

    L’asse di pensiero che da McLuhan porta alla attuale letteratura sulle rivoluzioni identitarie da cui è caratterizzata la società in rete, si concentra su una questione essenziale: individuare il corpo che si incarna in specifiche piattaforme espressive, modalità della comunicazione in sé e per sé, forme dell’abitare, abiti mentali e corporei; cogliere i sensi che danno espressione al corpo della comunicazione e quindi individuare quale sistema di relazioni, quale società si determini nel mondo vissuto quando una piattaforma espressiva si sta trasformando in un’altra, quando le protesi del corpo acquisiscono nuove capacità tecnologiche (secondo McLuhan, l’innovazione è la traduzione di un determinato genere di spaziatura dei corpi in un altro, che tende a farsi sovrano sul precedente).

    L’epoca del computer segna il progressivo slittamento dalle tecniche del sapere, sostenute dai linguaggi della stampa, verso le tecniche del corpo: quell’espressività psicosomatica, esperienziale, che già negli anni Trenta del Novecento era stata individuata come cultura autoritativamente rimossa da Georges Bataille, ma solo oggi – dopo una disattenzione che neppure il pensiero di Michel Foucault è bastato a ridurre – viene ripresa dagli studi di tipo antropologico, etnografico e post-coloniale. Forse anche sulla scorta della “rinascita” mcluhaniana. Si tratta di territori, che dalle forme di relazione umana precedenti alla scrittura (i mondi di un sentire non alfabetico, individuati e valorizzati da McLuhan) arrivano alle forme centrifughe e neotribali. Nel mezzo, il lunghissimo processo di alfabetizzazione che culmina con la stampa e l’avvento della produzione industriale di merci. La forza propulsiva del mondo moderno è dipesa dalla sovranità della stampa (le tecniche del sapere) sulla “corporea” turbolenza delle merci (ho sempre letto McLuhan come rilancio delle prime grandi intuizioni di Benjamin sulle merci). Gli attuali processi di globalizzazione hanno l’obiettivo (e anche il problema) di convertire l’intelligenza collettiva del mondo a un controllo diretto sulla sfera dei consumi, ma anche sulle resistenze del libro e tanto più del corpo: due polarità che hanno non poco a che vedere con il rapporto tra il globale e il locale.

    I messaggi sono mezzi

    Con media, non si deve intendere una strumentazione tecnologica che integra dall’esterno le nostre possibilità operative, ma la complessa e articolata attitudine del corpo, nelle sue espressioni o estroflessioni mondane, di dirsi – attraverso una sua sostanziale metamorfosi – in un modo diverso da come si diceva prima. è per questo che anche per McLuhan (e in modo assai più ragionato e sensibile di altri) il problema della moda, insieme ai comportamenti e ai consumi a esso connessi, acquisisce un rilievo non occasionale o marginale in quanto tecnica fondata sull’evidenza dell’immagine, sul vedere e farsi vedere, sull’apparire al mondo, sia nelle forme autoritative dei riti e delle cerimonie collettive, sia nelle forme discorsive dei rapporti identitari tra ceti, classi, gruppi: un messaggio che si fa mezzo, appunto. Nella moda, infatti, “essere” e “apparire” non sono – come la più parte delle ideologie anticonsumiste e platoniche continuano a sostenere – due cose diverse e in opposizione tra loro.

    Riemerge anche da questo punto di vista il ruolo di McLuhan nei confronti dei pensatori che lo hanno preceduto e che hanno colto la funzione di innovazione della moda, senza tuttavia riuscire a proiettarla sistematicamente sulla convulsa dialettica tra corpo e mondo, restando invece impigliati nelle variazioni infinite dell’abbigliamento e dei suoi accessori. Nel loro circostanziato effetto.

    La moda che decolla con la società moderna ha operato un trauma profondo nel conflitto tra Cultura e Civilizzazione. In questa stessa funzione traumatica consiste l’avvento dei media tecnologici, ma più ancora la loro sostanza originaria (ancora Bataille e il suo Collegio di Sociologia). Analizzando le mode nell’ambito dell’assestamento strutturale raggiunto tra gli anni Trenta e gli anni Ottanta del Novecento (non a caso, gli anni di McLuhan), tra il formarsi e il de-formarsi dei media della riproducibilità tecnica, l’interazione tra tradizione e innovazione, tipica della piena modernità, non potrebbe essere spiegata lungo le sue contraddittorie linee di forza se non ricorrendo al ruolo svolto dalla comunicazione prima nelle sue forme proto-moderne e poi nelle forme post-moderne, che per più aspetti sembrano oggi rievocarle.

    Lo stesso Simmel, il geniale sociologo della modernità, poteva – nel 1905 – prevedere tutto ciò che sarebbe accaduto avendo per matrice la dimensione territoriale della metropoli, ma non poteva in effetti prevedere la svolta dei fenomeni della moda a partire dal momento in cui, a fare da matrice del loro sviluppo, è stato il territorio mediale: non il rapporto tra l’abito e l’abitare, ma tra il proprio corpo e il mondo dell’altro (magari attraverso quel pettegolezzo e quella chiacchiera mondana così invisi al sapere istituzionale). Questa svolta avrebbero dovuto coglierla, semmai, i sociologi degli anni Cinquanta e Sessanta, ma questo è accaduto solo in minima parte, molto ai margini della sociologia “pesante” che intendeva mettere ordine nelle incoerenze della civilizzazione. A pensare il futuro, il suo farsi al presente, sono stati piuttosto i letterati e i critici letterari come McLuhan, esperti di trame espressive in cui i processi di significazione forzano il presente, vi aprono esasperate zone di confronto tra il passato e la sua assenza, il suo venire meno.

    Nel 1968 la rivista di moda “Harper’s Bazaar”, famosa e autorevole quanto “Vogue”, pubblicò un consistente saggio di McLuhan intitolato Fashion is the medium, che costituisce un punto di partenza sostanziale per affrontare il tema con lo sguardo di un’epoca, la nostra, che vede pienamente concretizzato quanto allora poteva sembrare un discorso visionario. «Nelle culture tribali», scriveva McLuhan, «uomini e donne si considerano sempre come parte integrante della natura. Sono interni a una rete ininterrotta di parentele e di responsabilità, che fonde l’individuo con la società intera. La vita li coinvolge, e loro la sperimentano come una mistica della partecipazione».

    Partendo da questa premessa, che lascia sprofondare nell’indistinto ogni speciale divisione tra comunicazione e abbigliamento, ricomponendola nella sola e unica dimensione partecipativa del soggetto alla varietà di simboli del proprio mondo di appartenenza, McLuhan sviluppa un puntuale confronto tra due opposti regimi espressivi (e sociali): quello inclusivo dei linguaggi del corpo e quello esclusivo dei linguaggi della scrittura: «A partire dall’alfabeto fonetico e dai greci, è emerso nella civiltà occidentale un atteggiamento di di-stacco e di non coinvolgimento. Per effetto di tale rifiuto a lasciarsi coinvolgere nel mondo in cui viveva, l’individuo alfabetizzato venne a trovarsi rispetto all’ambiente circostante, e al suo stesso corpo, in una posizione di alienazione. Oggi i prolungamenti elettronici del sistema nervoso ci coinvolgono in profondità in tutte le altre vite. Laddove la tecnologia della stampa e della scrittura ha strappato l’uomo dal gruppo, dando origine alla profonda infelicità dell’alienazione psichica, improvvisamente e senza preavviso i media elettronici lo precipitano di nuovo in un abbraccio di gruppo».

    L’estetizzazione della vita quotidiana

    Un “abbraccio di gruppo” che la natura specifica delle piattaforme digitali raccoglie e potenzia e promuove oltre le stesse profezie mcluhaniane. All’interno e all’esterno dell’uso degli apparati informatici impiegati dalle attuali dimensioni dell’essere insieme “accade” qualcosa di diverso, si insinua e matura un’inedita composizione culturale dell’abitare e dei transiti, dei “passaggi” antropologici. Quando la stampa costituiva il mondo in cui le cose assumono una maggiore visibilità nel tempo e nello spazio, l’abito se ne serviva in un suo quadro strategico, anche se a prezzo della condivisione di consolidati sistemi di regole sociali, collettive e sempre di nuovo sanzionate e rinegoziate. Ma, oggi, le reti digitali offrono piattaforme espressive in grado di sollevare l’abito dai suoi vincoli storici con i valori della terra, del libro e persino delle merci, trasformandolo in quella “pelle della cultura” – espressione davvero “calzante” per l’abbigliamento – di cui ha parlato Derrick de Kerckhove, riprendendo e sviluppando il discorso sulla tattilità tribale di McLuhan: «Nel mondo tribale la pittura vive sul corpo, la scultura è una cosa che si usa o si venera, l’architettura la fai da te e la letteratura si recita o si danza. La moda è linguaggio: struttura l’abisso delle tenebre. Parla affinché io possa vederti. Nel mondo tribale l’arte appartiene all’ordinaria esperienza quotidiana: al modo in cui un padre si rivolge al figlio, decora la porta di casa, macella un maiale, danza, si cinge del perizoma al mattino, o si rivolge al suo spirito custode».

    Infine, e per finire: «Quando l’arte diventa inseparabile dalla vita quotidiana – dal modo in cui una donna prepara un pasto, parla ai propri figli, decora la casa, fa all’amore, ride – non c’è “arte”, perché tutta la vita è arte». Era sempre McLuhan a scrivere questo “manifesto” estetico ed etico insieme, ed era sempre il 1968, anno fatidico della “immaginazione al potere”. Forse risiede proprio in questa est-etizzazione della vita quotidiana l’insegnamento più coinvolgente e più sconcertante di McLuhan: tanto forte da imporci di guardare al mondo e a noi stessi con occhi diversi; tanto allusivo, incerto, mobile, quasi un “pensiero debole”, ma privo delle debolezze dei pensatori, da diventare trasparente e in sostanza invisibile: come delle lenti a contatto, le lenti di McLuhan, rispetto agli occhiali della tradizione. Sono questi i fattori che lo rendono indimenticabile. Anche se, forse, è venuto il momento di ripensarlo di nuovo. Magari a partire dalla piega più politica della sua tanto nota, quanto discussa, e per lo più troppo accademicamente, distinzione tra “linguaggi del vedere” e “linguaggi del sentire”: in cui poi ha trovato espressione il suo modo di impostare il conflitto tra società aperta e società chiusa. Appunto quanto è in gioco nel futuro delle reti.

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