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Il IV Rapporto Generare classe dirigente, di LUISS e Associazione Management Club richiama a un forte senso di responsabilità sociale per recuperare terreno nella competizione globale.

di Massimiliano Cannata

Fare sistema, ricucire lo strappo con la società, dare spazio al merito superando le barriere del provincialismo, creare una governance favorevole al cambiamento, rafforzare l’attitudine all’innovazione. Il IV Rapporto Generare classe dirigente, curato dall’Università LUISS e dall’Associazione Management Club, ha avviato un’analisi delle élites, che anche nel nostro paese hanno cominciato a guardarsi allo specchio, scorgendo la faglia di uno scollamento, di una frattura che negli ultimi due anni ha segnato un allontanamento tra chi gestisce la cosa pubblica e i cittadini.

La ricerca di quest’anno entra con incisività nel mondo delle organizzazioni produttive, cogliendo i fattori di trasformazione, le criticità, le esigenze, le potenzialità di trasformazione. Lo studio analizza l’impatto che la crisi ha avuto sulle classi dirigenti europee, con un occhio particolare rivolto all’Italia, alla Germania, alla Francia, all’Inghilterra. Sotto osservazione la parte «stretta» della piramide, finanzieri, industriali, alta dirigenza dell’amministrazione pubblica.

Un dato balza all’occhio: il sostanziale punto di convergenza, che fa dell’Europa, salvando i dovuti distinguo, un territorio politico-geografico segnato dal visibile logoramento del capitale di fiducia dei cittadini nei confronti delle classi dirigenti, colte di sorpresa dal «crac» che ha messo in ginocchio il sistema delle economie globali interconnesse. «Non si vogliono dare ricette», spiega il sociologo Nadio Delai, coordinatore scientifico dello studio. «Il Rapporto stimola la classe dirigente a non ripiegarsi, a pensare al paese e quindi al futuro collettivo. Abbiamo individuato alcuni paradigmi a cavallo tra la dimensione socio-politica e la dimensione economica. Innanzi tutto l’improponibilità di un modello replicante. Giuseppe De Rita ha sollevato molto bene il problema: la replica non basta più, bisogna cambiare registro. Secondo aspetto: occorre rientrare nell’economia reale. Cosa non difficile per un paese come l’Italia che ha mantenuto un suo equilibrio. Per realtà che hanno incentivato la bolla finanziaria e i servizi, il rientro diventa più complesso. Per le grandi banche abituate a fare profitto con il trading, tornare a rendimenti del 5/6 per cento rispetto al 30 per cento è certo uno shock. Occorre governare lo sgonfiamento della bolla delle attese, cioè le aspettative di governi e cittadini. Se tutto cresce a dismisura e il denaro si ottiene facilmente, si crea un clima sociale in cui tutto è globale, tutto è rincorsa, tutto è debito. C’è inoltre da chiedersi come pilotare – questo vale per l’Italia in particolare – un mondo che ha vissuto di una filosofia individualista, verso una prospettiva dove conta la relazionalità e il solidarismo, per cui il merito è una virtù collettiva. Non trascurerei un ultimo elemento: l’equilibrio con il mondo della comunicazione. La TV innalza e abbatte in poco tempo. Una classe dirigente troppo esposta, come la nostra è destinata a durare poco, a logorarsi molto presto. La cronaca di questi giorni lo dimostra ampiamente».

L’«egoismo» dei manager

Se li si analizzano con attenzione, i dati parlano chiaro. La nostra élite è invecchiata. Due su tre leader hanno più di 65 anni. Solo la Germania sta peggio di noi. Solo il 17 per cento delle donne ricopre ruoli manageriali: troppo poco per un paese che si dice moderno. Per non parlare dei titoli di studio: solo un manager su dieci ha finito un corso postlaurea: un quarto rispetto alla Gran Bretagna.

«Una fotografia», commenta il presidente dell’Associazione Management Club e di Fondirigenti, Renato Cuselli, «che ci mostra un paese provinciale, a senso unico, autoreferenziale e conservatore. Malgrado questo, vogliamo andare oltre gli esempi negativi. Per questo la terza parte del volume è dedicata ai segnali di mutamento dell’impresa. Vi sono, infatti, realtà che fanno intravedere come la nostra capacità imprenditoriale, il proverbiale Made in Italy, sia in grado di reagire, affinando azioni e strategie efficaci di ripresa».

Bisogna mettersi in discussione, per imboccare una svolta, smettendola di coltivare ciascuno il proprio orticello, superando quella oscillazione «tra debolezza e miopia» denunciata in un efficace recente editoriale di Sergio Romano, sul «Corriere della Sera»: «Quando parlano e protestano», scrive il politologo, «gli italiani parlano quasi sempre di se stessi, vale a dire degli effetti che una legge o una manovra finanziaria potrebbero avere per le loro personali condizioni economiche o per quelle della corporazione. Sinigaglia, Merzagora, Olivetti, Cuccia, Carli, Agnelli erano imprenditori che pensavano naturalmente alle loro aziende, ma avevano convinzioni forti sul paese in cui avrebbero voluto lavorare e le esprimevano».

Manager non siate egoisti, una ricerca del sociologo Renato Mannheimer realizzata per Federmanager, sintetizza con efficacia la delicatezza del momento, articolando la domanda di trasparenza e di generosità, che ampi strati della società civile formulano senza fare sconti agli uomini di governo.

La mancanza di una visione a lungo termine sta, infatti, allontanando il dibattito pubblico dalle vere riforme sociali e politiche di cui il paese avrebbe bisogno. «Non c’è vento favorevole per chi non ha una direzione»: il vecchio adagio calza a pennello. Basterebbe applicare il principio popperiano della fallibilità, su cui la scienza ha fondato per secoli il suo successo scandendo il progresso dell’umanità, per voltare pagina. «L’innovazione», ha fatto notare argutamente Umberto Eco in una recente Bustina di Minerva sul settimanale «L’Espresso», «avviene proprio quando qualcuno riesce a mettere in questione il paradigma dominante. Comportarsi in modo dogmatico senza nessuna capacità critica di intervento, significa assumere un atteggiamento oscurantista, che è la condanna più sicura degli individui e delle società all’immobilismo».

Il tema è straordinariamente attuale soprattutto se proviamo a osservarlo dalla prospettiva di politici e manager. «Cultura», aggiunge il celebre semiologo, «vuole anche dire buttar via le cose superate, non è solo indiscriminato accumulo di dati e nozioni». Detto in altri termini: è giusto partire dai paradigmi esistenti, ma per dimostrare che non possono più tenere, alla luce delle profonde trasformazioni che stanno cambiando l’economia e la concezione stessa del lavoro. Proprio di questo «salto» di paradigma hanno bisogno le élites di tutti i paesi cosiddetti avanzati, che stentano a esprimere dei modelli di governance coerenti rispetto alle esigenze che caratterizzano, per usare un’immagine di Ulrich Beck, la «società del rischio».

L’innovazione dal «basso»: la nostra Silicon Valley

Per capire meglio le dotte affermazioni di Eco e Beck, occorre entrare negli ambiti che stanno sperimentando in concreto cosa vuole dire innovare, rischiare, vivere la competizione, sfidare il mercato. «Abbiamo analizzato», spiega Giorgio Neglia, direttore di ricerca di AMC e curatore del capitolo «Esperienze di formazione dal basso dalla classe dirigente all’impresa», «quaranta case histories, cercando, con metodo trasversale, di spaziare dal settore dell’ICT agli ambiti di business più tradizionali, (cfr. http://italy.usembassy.gov/ face2face dell’Ambasciata USA in Italia, che contiene il data base completo delle interviste).

Funanmbol, Rainbow, H-farm sono espressione di storie affascinanti, che raccontano la vita di imprenditori giovani »a tutto tondo«, dotati di un giusto mix di competenze di nicchia e di eclettismo, qualità sempre più richiesta dal mercato competitivo. «Funambol», commenta Neglia, «è una Mobile Open Source company che ha l’obiettivo di favorire la creazione in Italia di un polo hi-tech nello spirito della celebre Silicon Valley. Il progetto conta oltre tre milioni di downloads e rappresenta il più grande modello di business incentrato sullo strumento dell’open source, essendo utilizzato dai principali operatori mobili e dagli addetti ai lavori. L’intuizione di fondo è espressa efficacemente dalle linee programmatiche: portare il data mobile alle masse, attraverso la creazione di application server per la telefonia mobile che permetta di dare a tutti i telefonini le funzionalità del Blackberry al di là dei providers di riferimento».

L’identità aziendale radicalmente legata all’open innovation, che concepisce l’organizzazione non come un’entità dai confini rigidi, ma come una piattaforma permeabile rispetto al contesto territoriale, è un fattore importante che svela il profilo di un’azienda dinamica, al passo con i tempi. «Anche il successo di Rainbow, azienda che opera nel mondo dell’intrattenimento cinematografico e televisivo, è stato propiziato dall’attitudine a innovare. La creazione di »Winx Club», serie proposta sul piccolo schermo e divenuta famosa in tutto il mondo, nasce da un corretto approccio al mercato e dall’adozione di una coerente strategia di business collaboration. La filosofia di Rainbow è molto chiara: conoscere il mercato per creare un prodotto che possa rispondere alle aspettative del cliente. La creazione di un team internazionale a garanzia del successo in ogni paese target, la qualità del lavoro e l’importanza della selezione delle risorse umane hanno permesso di rivoluzionare il contenuto dei tradizionali cartoons, costruire personaggi sui quali detenere la proprietà intellettuale, beneficiare di ulteriori voci di reddito attraverso il merchandising dei prodotti».

Non meno interessante si presenta il caso di H-farm, che in breve tempo è diventata venture incubator di dimensione internazionale, con oltre 160 dipendenti. Il progetto parte dalla sperimentata constatazione delle difficoltà incontrate dai giovani imprenditori, che spesso non riescono a realizzare e a promuovere la loro business idea. Non siamo di fronte a un semplice apporto di capitale di rischio, piuttosto a un vero è proprio seed support generale, che aiuta le neonate imprese a partire con i giusti parametri in modo equilibrato, per riuscire a crescere nel futuro con le proprie forze e le competenze acquisite.

Certo, «le cose belle sono difficili». La citazione di Platone, rispolverata da Cuselli, traccia l’impegnativo viatico della nuova stagione, da affrontare con consapevolezza, preparazione e tempestivo senso della sfida.