Depressione a prova di gene

L’azienda californiana 23andMe sta mettendo a punto una grande banca dati per analizzare le radici genetiche della depressione.

di Antonio Regalado

Una ricerca scientifica sul DNA di oltre 450mila clienti dell’azienda californiana di analisi genetiche 23andMe ha scoperto il primo grande patrimonio di indizi genetici per spiegare la depressione.

Lo studio, il più esteso nel suo genere, ha rilevato 15 regioni del genoma umano connesse a un rischio più elevato di avere a che fare con la depressione grave. Lo studio stesso è stato effettuato dal gigante farmaceutico Pfizer nell’ambito di un’alleanza con 23andMe, le cui analisi genetiche sono state commissionate da più di 1.2 milioni di persone.

Finora gli sforzi per individuare i rischi genetici della depressione sono per lo più falliti, probabilmente perché sono stati troppo limitati per riuscire a trovare qualcosa. «Non si può non riconoscere che si tratta di un problema di numeri», sottolinea Ashley Winslow, già neuroscienziato presso Pfizer e ora direttore del dipartimento di neurogenetica presso l’Orphan Disease Center della University of Pennsylvania. Winslow ha coordinato la ricerca in questione. «È difficile, se non impossibile, raggiungere i numeri considerati nello studio di 23andMe».

I risultati sono emersi da quello che viene definito uno “studio di associazione genomica a largo spettro”. In questo approccio, il DNA di molte persone portatrici di una malattia viene confrontato con quello di altre persone sane, mediante un’analisi computerizzata. Le differenze genetiche che compaiono più spesso nelle persone malate possono suggerire quali geni siano coinvolti.

Questa “caccia al gene” ha portato a importanti ipotesi relative a diabete, schizofrenia e altre diffuse malattie. Ma fino a ora la depressione è rimasta praticamente inaccessibile. In precedenza, uno studio su 6mila donne cinesi gravemente depresse ha individuato due indizi nel genoma, ma molte altre indagini sono rimaste a mani vuote.

«Non si può negare che 23andMe ci abbia portato a un punto di svolta per quanto concerne la depressione», riconosce Douglas Levinson, psichiatra e genetista della Stanford University, in relazione con il Genomics Consortium psichiatrico, un altro gruppo di ricerca genetica. «Si tratta di un risultato molto confortante, che ci lascia sperare di esserci quasi arrivati».

23andMe ha venduto più di un milione di un kit per le analisi genetiche, che costa 199 dollari e viene utilizzato per lo più per scopi ludici, come la scoperta della propria origine etnica. Più della metà dei suoi clienti hanno deciso di consentire a che il loro DNA venga impiegato in ulteriori  indagini concernenti la loro salute.

Mediante queste indagini, la 23andMe ha potuto individuare più di 141mila persone che hanno detto di avere ricevuto una diagnosi di depressione: 10 volte più di qualsiasi altro studio sulla depressione mai effettuato, sottolinea Levinson. I dati del DNA di altri 337mila clienti della 23andMe senza sintomi apparenti di depressione sono serviti da campione di controllo.

La necessità di banche dati sempre più grandi è molto sentito dai genetisti. Su loro sollecitazione, il governo degli Stati Uniti ha avviato quest’anno un programma per un esauriente database medico relativo a un milione di persone. Per altro il rischio genetico per la depressione è dovuto a centinaia di geni, ciascuno portatore di un effetto molto piccolo.

Levinson osservato che la depressione rappresenta un caso perfetto per realizzare un database. Si tratta, infatti, di una malattia comune e non più altamente stigmatizzata, per cui le persone sono disposte a riconoscere che ne soffrono. Altri disturbi psichiatrici sono molto meno comuni. «Se si cercasse di farlo anche per la schizofrenia o l’anoressia probabilmente si fallirebbe», conclude Levinson, «e bisogna tenerne conto per non incorrere in insidiose battute di arresto».

(GV)

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