Dal viejo a la rabiosa

La scoperta del De Ludo Scachorum di Luca Pacioli

di Giuseppe O. Longo

Nell’immaginario popolare gli scacchi sono considerati un gioco adatto a persone intelligenti, magari un po’ bizzarre, e questa fama si è consolidata da quando gli specialisti di software si sono dedicati alla costruzione di programmi scacchisti. Il matrimonio tra scacchi e computer ha sancito la consacrazione “scientifica” di questo antico passatempo. I bravi scacchisti sono ritenuti non solo intelligenti, ma anche dotati di ottima memoria, di grande capacità di concentrazione e soprattutto di una grande facilità di calcolo mentale, che li aiuterebbe a prevedere molte mosse, proprie e dell’avversario, e di analizzarne le conseguenze. Sarebbero cioè delle vere e proprie macchine logiche dotate di memoria, attenzione e immaginazione. Ma pare che nessuna di queste credenze sia stata confermata dagli studi degli psicologi.

Pochi giochi sono suggestivi e appassionanti come gli scacchi: la loro trasparenza, l’assenza di ogni elemento fortuito e di ogni squilibrio (tranne la lieve superiorità iniziale del bianco, cui spetta la prima mossa), insieme con la possibilità di elencarne con precisione le regole di base… non fa meraviglia che nei secoli essi abbiano suscitato l’interesse non solo dei giocatori, dilettanti e professionisti, ma anche dei matematici, attratti prima dalle possibilità combinatorie del gioco e poi, in tempi recentissimi, dalla prospettiva di costruire dei programmi di calcolatore capaci di competere con l’uomo.

In una pittura della tomba della regina egizia Nefertari, sec. XIII a. C., si può riconoscere una forma primitiva del gioco, detto Senet, che però era già noto al primo faraone, Menes, intorno al 3200 a. C. Ma, a parte questi incerti precedenti, sembra che l’origine degli scacchi sia da collocarsi in India intorno al VII secolo della nostra era. Di qui il gioco passò in Persia e poi nel mondo arabo, che lo coltivò con grande competenza e raffinatezza. L’occupazione araba della penisola iberica e dell’Italia Meridionale consentì agli scacchi di diffondersi rapidamente in Europa, tanto che tra il IX e il X secolo il gioco era praticato in tutti gli strati sociali e in quasi tutti i paesi.

Intorno al 1490 nel sud dell’Europa le regole cambiarono radicalmente: venne accresciuto il potere di movimento della Donna, che da pezzo debole (poteva muovere solo in diagonale e di una casa) divenne il più potente, dominando – come oggi – tutte le linee che s’incrociano con la sua casa. Il Re poté arroccare e all’Alfiere fu consentito di percorrere le diagonali del suo colore in tutta la loro lunghezza, mentre prima lo spostamento era limitato a tre case (poteva però saltare, facoltà che poi gli fu negata). I movimenti di Pedone, Torre e Cavallo restarono più o meno invariati. Per un certo periodo convissero le due formulazioni e si giocarono partite sia “del viejo”, cioè alla vecchia maniera sia “a la rabiosa”, nelle quali cioè la Donna percorreva rabbiosamente e selvaggiamente tutta la scacchiera, inseguendo e massacrando i pezzi avversari.

Il gioco era praticato sia dai giocatori, che s’impegnavano nei normali duelli, sia dai problemisti: questi ultimi preferivano i “partiti”, che somigliavano agli attuali problemi relativi ai finali, in cui si annuncia per esempio che “il Bianco muove e dà matto in due mosse”: la soluzione del problema consiste nell’individuare l’unica sequenza di tratti che porta alla conclusione annunciata. I partiti medievali e rinascimentali, al di là del loro interesse speculativo, erano al centro di un forte giro di scommesse in denaro ed erano quindi condannati dalla Chiesa: ciò tuttavia non ne limitava la popolarità.

Alla fine del Quattrocento, in pieno passaggio delle regole dal “viejo” alla “rabiosa”, il frate francescano Luca Pacioli scrisse un trattatello che comprende 114 “partiti”, di cui 27 “a la rabiosa” e gli altri “del viejo”. Questo manoscritto, di cui si aveva notizia ma che si riteneva perduto, è stato invece identificato, verso la fine del 2006, con un opuscolo conservato tra i circa 22000 volumi della biblioteca della Fondazione Coronini Cronberg di Gorizia. Il merito del riconoscimento va al bibliofilo Duilio Contin, direttore della Biblioteca del Museo Aboca, che si è basato sulla sua profonda conoscenza della biografia, della bibliografia e della grafia del Pacioli. L’attribuzione è indiziaria, e sono tre gli indizi, precisi e concordi, che nel loro insieme costituiscono una prova: la lingua, la scrittura e le modalità redazionali.

Il linguista Enzo Mattesini ha riscontrato nel volgare del manoscritto un impasto espressivo variegato, sostenuto da una sintassi essenziale, in cui si ravvisano sia tratti della “materna e vernacula lengua”, sia l’influsso latineggiante, sia elementi del fiorentino: elementi tutti che convergono su Pacioli. Il paleografo Attilio Bartoli Langeli ha sottolineato che la scrittura, di mano unica, è una svelta “mercantesca” identica a quella dei manoscritti firmati da Pacioli. Era questa la scrittura dei mercanti, degli artigiani, delle persone di cultura e abilità pratica, contrapposta per esempio alle scritture curiale e notarile, impiegate in altri ambiti. Anche Leonardo, che si definiva “omo sanza lettere”, scriveva in mercantesca, alla mancina. Pacioli aveva appreso questa scrittura nella scuola d’abaco e la usò per tutta la vita, anche dopo aver imparato il latino.

Il manoscritto di cui parliamo (un libricciuolo delle dimensioni di circa 150×109 mm e rilegato in cuoio con pregevoli decorazioni geometriche e floreali impresse a freddo) è composto di 48 carte, cioè 96 facciate, ciascuna contenente uno o due “partiti” con le indicazioni per la soluzione. Le scacchiere e le figure dei pezzi (in rosso e in nero) sono state tracciate dallo stesso Pacioli, ma c’è chi avanza l’ipotesi che i disegni siano da attribuire a Leonardo da Vinci, che del matematico fu a lungo amico e compagno di viaggi e di soggiorni. E’ un’ipotesi ardita e poco plausibile, anche se un’altra opera di Pacioli, il De Divina proportione, fu illustrata da Leonardo.

Di Luca Pacioli conosciamo l’aspetto grazie a un celebre ritratto del 1495 di Jacopo de’ Barbari, che si trova nella Pinacoteca del Museo di Capodimonte, a Napoli. Il quadro è una silloge dell’attività scientifica ed economica del francescano: con la destra Pacioli dimostra su una lavagnetta uno dei teoremi di Euclide (infatti il libro aperto che ha davanti è la versione latina degli Elementi), mentre alla sua sinistra giace un grosso tomo rilegato in rosso e trattenuto da fermagli, in cui è da riconoscere la Summa, un compendio di conoscenze matematiche e contabili, di cui accenneremo tra breve. Appeso a un filo si libra in aria un rombicubottaedro di ispirazione leonardesca, per metà riempito d’acqua, il quale riflette palazzi, figure e volti umani. Sul tavolo, vari strumenti: oltre alla lavagna, un goniometro, un compasso, un contenitore cilindrico nero, un dodecaedro posato sopra la Summa e, accanto ad essa, un piccolo cartiglio aperto, con il monogramma dell’autore e la data 1495. Alle spalle di Pacioli, a sinistra, compare un personaggio enigmatico: forse un autoritratto di Jacopo de’ Barbari, forse un ritratto del grande incisore tedesco Albrecht Dürer, o del mecenate Guidobaldo da Montefeltro: non vi sono certezze.

Ma al di là dell’aspetto fisico, che cosa conosciamo del matematico Luca Pacioli? Nato nel 1445 a Sansepolcro, presso Arezzo, da umile famiglia, conterraneo e allievo del sommo pittore Piero della Francesca (1412-1492), che dovette iniziarlo alla matematica e alla geometria, Luca parte giovane per Venezia, dove frequenta i corsi di matematica della Scuola di Rialto, divenendo ben presto consulente per i traffici mercantili in Oriente. Nel 1470 abbraccia l’Ordine francescano e comincia a insegnare nelle scuole più importanti della penisola, da Firenze a Milano, da Bologna a Pisa. Ha stretti rapporti con alcuni dei massimi esponenti dell’arte e dell’architettura del tempo. Mentre il concittadino Piero lo colpisce con i suoi insuperati studi sulla prospettiva, Leon Battista Alberti lo affascina con le sue nitide architetture e Melozzo da Forlì con gli scorci vertiginosi dei suoi dipinti. Frequenta la corte di Guidobaldo da Montefeltro, signore di Urbino. A Milano è ospite di Ludovico il Moro e nel 1496 vi incontra Leonardo, con il quale stringe rapporti di amicizia e di collaborazione, tanto che Bernardino Baldi, nella sua opera De le vite de’ matematici (1587-1589), scrive: “Erano di maniera Leonardo e il nostro Luca domestici fra loro, che sempre si trovavano insieme, onde il frate suole nominarlo Leonardo suo”.

Come altri matematici del tempo, Pacioli non è un teorico, né pretende di essere un trattatista originale, ma è un grande diffusore del sapere matematico, che piega alle esigenze delle applicazioni, in particolare dei traffici mercantili, così come prima di lui aveva fatto Leonardo Fibonacci (1170-1250) e come più tardi faranno Gerolamo Cardano (1501-1576) e Giovanni Keplero (1571-1630), il quale ultimo adoprerà la matematica per i suoi studi d’astronomia.

Pacioli espone le sue conoscenze in alcune opere che lo rendono famoso. Nel 1494 stampa a Venezia la prima delle sue grandi opere, la Summa de arithmetica, Geometria, Proportione et Proportionalità, un ampio trattato che contiene una silloge sia delle conoscenze matematiche del tempo, dalle regole di Leonardo Fibonacci all’algebra del Quattrocento, sia delle tecniche commerciali più avanzate. Uno dei capitoli, intitolato Tractatus de computis et scripturis, tratta di profitti, perdite, baratti, società, ed espone per la prima volta, con grande chiarezza, le basi della “partita doppia”, una tecnica contabile fondamentale anche ai nostri giorni. L’uso del volgare invece del latino rende i suoi testi accessibili a un pubblico assai ampio ed eterogeneo, anche se si tratta di un volgare in cui ai termini italiani si mescolano termini latini e greci.

Sempre a Venezia, nel 1509, dà alle stampe la sua opera più importante, il De Divina proportione, ancora in volgare, in cui espone la teoria della “sezione aurea”. In questo trattato si giova, per tracciare i poliedri e le splendide lettere maiuscole, della collaborazione artistica di Leonardo. Pacioli vi inserisce anche la traduzione in volgare del trattatello di Piero della Francesca De quinque corporibus regularis, che illustra i cinque solidi platonici aventi per facce i poligoni regolari di tre, quattro e cinque lati. Per questo inserimento Giorgio Vasari accuserà Pacioli di plagio: in realtà la sua intenzione era piuttosto quella di diffondere l’opera del grande concittadino.

Nel 1499 troviamo fra Luca Pacioli e l’inseparabile Leonardo a Mantova, alla corte di Isabella d’Este: i due amici sono in fuga da Milano, dove il loro protettore Ludovico il Moro è ora in disgrazia. A Mantova, Luca da una parte illustra alle corporazioni mercantili i vantaggi della contabiltà in partita doppia e dall’altra impartisce lezioni di matematica e di geometria alla raffinata e intelligente Isabella. La val Padana attraversa un momento di grande fervore culturale e artistico grazie alla potenza di Venezia e di alcune corti principesche. In particolare i feudatari di Ferrara e Mantova, gli Estensi, si circondano di artisti e poeti illustri. Il grande mecenate e uomo di cultura Ercole I d’Este (1431-1505) accoglie alla sua corte musicisti e letterati, tra i quali Matteo Maria Boiardo e Ludovico Ariosto. Le sue figlie, Beatrice e Isabella, sono le nobildonne più colte e raffinate del Rinascimento. Beatrice sposa Ludovico il Moro e ospita personaggi eminenti, tra i quali, appunto, Leonardo e Pacioli.

Isabella d’Este, che a sedici anni sposa Francesco II Gonzaga, marchese di Mantova, vede soggiornare alla sua corte Raffaello, Mantegna, Tiziano, Giulio Romano, e poi anche, per alcuni mesi tra il 1499 e il 1500, gli inseparabili Leonardo e Pacioli. Grande appassionata di scacchi, Isabella ordinava i pezzi del gioco agli artigiani più abili del suo tempo. Questo interesse suggerì a Luca Pacioli di dimostrare la propria riconoscenza a Isabella dedicandole un trattato sul nobile gioco. La sua mente matematica e insieme pratica trovava negli scacchi una sintesi naturale di logica e strategia. Preparò dunque un taccuino di appunti, probabile bozza per un successivo libro a stampa. Nacquero così le 48 carte del manoscritto di Gorizia: di getto, con una scrittura “mercantesca” veloce e trasparente, in volgare semplice ed efficace, Pacioli tracciò e illustrò i 114 “partiti” che dovevano confluire nel De ludo scachorum… dicto Schifanoia… (“Schifanoia”, cioè atto a schivare la noia delle lunghe serate a corte).

La competenza scacchistica di Luca non era frutto d’improvvisazione, bensì di una pratica di lungo corso: doveva conoscere molti dei trattati precedenti e contemporanei, dai quali trasse alcuni “partiti”, e forse praticava anche il gioco (a quanto pare, invece, Leonardo conosceva ben poco degli scacchi, forse soltanto le mosse e i principi elementari).

Il manoscritto di Gorizia, preparatorio al progettato De ludo, scomparve dalla circolazione e non è stato mai spiegato perché non sia finito invece nelle mani dei Gonzaga. Se ne trova menzione nella lettera dedicatoria del manoscritto del De viribus quantitatis, dove Pacioli parla di un “… iocondo et alegro tractato de ludis in genere cum illicitorum reprobatione spetialmente di quello de scachi in tutti i modi detto schifanoia” (la precisazione moralistica contenuta nella clausola “cum illicitorum reprobatione”, cioè con esclusione d’inganni, si confà allo stato monastico di fra Luca e alla nobile natura degli scacchi). Per secoli questo accenno restò l’unico indizio a disposizione degli studiosi, ma sia pur affiancato da altri accenni sparsi non fu sufficiente a costituire una traccia.

Il 29 dicembre 1508 Pacioli scrisse al doge veneziano Leonardo Loredan una Supplica in cui chiedeva il privilegio di pubblicare a stampa alcune sue opere: il De divina proportione, il De viribus quantitatis, l’Euclide e il De ludo scachorum e di ristampare la Summa. La prima opera sarà stampata nel 1509, della seconda sarà conservato un manoscritto di copista, mentre l’Euclide e il De ludo scomparvero. La Summa sarà ristampata solo nel 1523, sei anni dopo la morte dell’autore, avvenuta a Roma nel 1517. Insomma il De ludo scachorum si perse nei labirintici corridoi e nelle infinite stanze delle Procuratie veneziane e non se ne seppe più nulla fino a tempi recentissimi.

Una decina d’anni fa la studiosa di tradizioni popolari Lucia Pillon segnalò la presenza, nella Biblioteca della Fondazione Coronini Cronberg di Gorizia, di un manoscritto scacchistico fino a quel momento ignoto agli specialisti e descritto poi da alcuni esperti come opera di Anonimo. Nel novembre del 2006 entra in scena Duilio Contin, il quale da anni cercava alcuni manoscritti scomparsi del francescano di Sansepolcro. La curiosità lo indusse ad esplorare i luoghi frequentati dal Pacioli e la fortuna lo condusse a Gorizia, davanti al ricercato speciale scoperto dalla Pillon e studiato ma non riconosciuto né da lei né da altri. “Ebbi un’intuizione”, racconta Contin, “quella scrittura era troppo simile a quella dei manoscritti autografi di Pacioli che conoscevo… Però non volevo farmi illusioni. Preparai copie della parte scritta e le mandai a Enzo Mattesini, linguista, e ad Attilio Bartoli Langeli, insigne paleografo”. Da loro venne immediatamente la conferma: secondo tutti gli indizi, il manoscritto era proprio di Luca Pacioli. “Per una fortunata combinazione e per un’intuizione guidata dalla mia esperienza”, dice Contin, “avevo riconosciuto nel libriccino il manoscritto del De ludo che tutti cercavano”. Fortuna, esperienza e intuizione: le doti del vero scopritore. “La mia particolare conoscenza del Pacioli mi ha fatto palpitare nel momento stesso in cui ho aperto il libretto e confesso che ho faticato non poco a tenere a bada l’emozione che provavo”.

Per concludere, esaminiamo uno dei “partiti”, il n. 18, “a la rabiosa”, che compare sul foglio 8, al recto, e che si risolve in due mosse. Scrive Pacioli a illustrazione: “Li rossi vanno prima e mattano li neri in 2 tratti. Prima tra’ el rocco (cioè la torre) dicendo scaco in a e poi matto o del rocco o de cavallo in c”. Si veda la grafica moderna e la sequenza di gioco:

1. Torre d8 scacco, Re c7

2. Torre c8 o Cavallo e6 matto.

Riquadro 1

Sulla sezione aurea : eventualmente da compilare

Riquadro 2

Da un paio d’anni il Centro Studi Aboca Museum di Sansepolcro, il cui campo d’attività originario verteva sulle erbe e sulla storia della medicina naturale, ha esteso il proprio interesse all’attività artistica e scientifica degli antichi concittadini di Borgo San Sepolcro, in particolare di Piero della Francesca e di Luca Pacioli. Il Centro ha così avviato l’edizione di due pregiati inediti, i facsimile del De prospectiva pingendi di Piero, composto dal 1472 al 1475 (l’originale si trova nella biblioteca Panizzi di reggio Emilia), e del De viribus quantitatis del Pacioli (conservato nella Biblioteca Universitaria di Bologna). A questo punto si è aggiunto, in modo del tutto insperato, il manoscritto del De ludo scachorum, la cui presentazione al pubblico è stata l’evento di punta di una mostra allestita nel Gabinetto dei Disegni e delle Stampe della Galleria degli Uffizi, aperta dal giugno al settembre 2007. In questo modo, attraverso le opere dei grandi del Rinascimento, si recupera quel legame tra matematica e arte che oggi purtroppo si è perduto e che sarebbe invece auspicabile riannodare.

Riquadro 3

L’evoluzione più recente degli scacchi ha portato modifiche non al gioco, ma ai giocatori: da alcuni anni sono stati allestiti programmi per calcolatori che giocano coi maestri e coi grandi maestri, spesso battendoli. In effetti gli scacchi giocati da un essere umano sono molto diversi dagli scacchi giocati da un calcolatore programmato. In primo luogo i programmi possiedono una potenza di calcolo schiacciante, che consente loro di tendere alla vittoria sulla base di piccoli vantaggi conseguiti passo passo. I grandi maestri invece si affidano alla fantasia e alla creatività e impostano strategie di lungo respiro: insomma i due stili, dell’uomo e del software, sono diversissimi, inconfrontabili. A riprova, lo stile di uno scacchista cambia a seconda che giochi con un collega o con una macchina.

Ma la differenza tra il gioco praticato da un uomo e quello praticato da un computer è ancora più sottile, perché anche quando si dedica ad attività che potrebbero sembrare squisitamente immateriali e astratte, come la matematica o appunto gli scacchi, l’uomo non può prescindere dall’avere (o dall’essere?) un corpo immerso in un contesto. Mentre gioca, l’essere umano fa molte altre cose: gioisce, si esalta, si arrabbia, suda, si distrae, è disturbato dai presenti o dalle luci, magari ha riposato male la notte prima o ha mal di denti… Invece il programma persegue imperturbabile l’unico obbiettivo che conosce: arrivare a uno stato finale che noi umani chiamiamo vittoria. La macchina non ha “anima”, mentre l’anima emotiva e volitiva dell’umano può interferire in molti modi col gioco, spingendo a mosse creative o bizzarre, difficili da giustificare razionalmente, mosse che all’osservatore esterno possono apparire come “errori”. Al limite l’uomo può anche decidere di perdere in base a considerazione del tutto estranee alla partita, considerazioni che la macchina non può nemmeno immaginare.

D’altra parte non bisogna dimenticare che il programma non è del tutto autonomo, poiché comunica con il programmatore attraverso un cordone ombelicale che può essere riaperto in ogni momento (salvo divieti accettati dalle parti). Anzi, uomo e macchina sono in strettissima interazione, tanto che quando vince la macchina, in realtà vince il complesso inscindibile macchina-programmatore. In questo senso la macchina è una protesi dell’uomo, una protesi che ne modifica profondamente le modalità cognitive: i programmatori sono esseri umani “ibridati” con la macchina, sono dei “simbionti”, sono una nuova specie profondamente trasformata da una tecnologia inarrestabile.

E qui veniamo all’ultima differenza fondamentale: i progressi dei programmi (e dei simbionti) sono continui, quelli dell’uomo, se ci sono, sono lentissimi. Ogni individuo nasce del tutto digiuno di scacchi e deve fare un lungo apprendistato, mentre i programmi possono ereditare in pochi secondi tutte le conoscenze, l’esperienza, i trucchi dei loro predecessori. Un programma contiene in sé tutta la storia degli scacchi, è un compendio di tutte le aperture, di tutti i finali, delle partite più importanti giocate dai maestri più illustri e procede per accumulazioni e ristrutturazioni successive. Non c’è da stupirsi che anche il campione del mondo Kasparov abbia dovuto arrendersi alla macchina. Un’analogia si presenta spontanea: è come far correre un cavallo con una motocicletta. All’inizio il cavallo batterà di gran lunga la moto, ma via via che la tecnologia progredisce, il mezzo meccanico raggiungerà il cavallo e poi lo batterà, perché i cavalli nascono tutti uguali, invece le moto migliorano di continuo. A questo punto si pone una domanda: che senso ha far giocare un uomo con una macchina? Se i due giocano di fatto due giochi diversi, non è meglio che gli uomini gareggino tra loro e i computer tra loro? Di fatto, credo, ciò prima o poi accadrà. Già ora si organizzano campionati di scacchi tra programmi: il campione mondiale in carica è il programma israeliano Deep Junior.

C’è tuttavia un problema più sottile e interessante, di carattere teorico: se l’IA si propone di replicare i processi mentali dell’uomo in un calcolatore, che beneficio può trarre dallo studio dei procedimenti mentali di uno scacchista? Scrisse Turing: “Se si riesce a spiegare in inglese senza ambiguità come fare un calcolo è sempre possibile programmare una macchina in modo che esegua quel calcolo.” A livello elementare ciò sembra ineccepibile, ma quando si passa a procedimenti mentali complessi, sorge il dubbio che il resoconto verbale che ne dà il soggetto sia molto lontano dal processo mentale profondo. Se così fosse, le regole esplicite incorporate nei programmi tipo Deep Blue sarebbero ben diverse dalle “regole” sfumate, implicite, forse inesprimibili, che seguono gli umani, e quindi questi programmi sarebbero poco utili per esplorare la nostra mente.

Ma qui il dibattito è apertissimo.

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