La storia della fotografia stereoscopica dall’Ottocento al primo Novecento, associata alla perdurante esperienza del Grand Tour, fa bella mostra di sé a Villa Pisani di Stra (Venezia), in una preziosa occasione per riflettere sulle incessanti metamorfosi della visione del mondo.
di Giordano Ventura
Che la scienza e la tecnologia abbiano molto a che fare con l’arte, non soltanto con le sue pratiche, ma anche con la visione del mondo che nell’arte trova espressione, è constatazione che precede la stessa rivoluzione scientifica del Seicento per risalire ai cosiddetti anni bui della sperimentazione alchemica.
Questa profonda relazione ha fatto registrare momenti di accelerazione asimmetrica, con la prevalenza dell’una o dell’altra esperienza. Qualcosa del genere è successo con la invenzione della fotografia che, dalla prima metà dell’Ottocento, con le sperimentazioni di Joseph Nicéphore Niépce e soprattutto con i procedimenti fotografici di Louis Daguerre, i famosi “dagherrotipi”, ha rivoluzionato le idee sulla rappresentazione del mondo, riproponendo in termini sempre più radicali il problema del rapporto tra oggettività e soggettività della visione.
In questa prospettiva – mai termine fu più indicato per “fotografare” questo problematico bivio della conoscenza – una preziosa testimonianza viene offerta dalla mostra organizzata a Villa Pisani di Stra (Venezia) da MUNUS e da Mosaico, che lascia intendere sino dal titolo la sua complessità problematica: Il Grand Tour e le origini del 3D, ribadendo la intrigante associazione tra un fenomeno storico e artistico, come quello del viaggio di formazione dei giovani continentali colti e agiati nei paesi del Mediterraneo, soprattutto in Italia, da Venezia alla Sicilia, e un fenomeno scientifico e tecnologico come quello della fotografia stereoscopica, che aveva riscosso uno straordinario successo dal suo primo apparire sul mercato, tra il 1845 e il 1850.
Da un lato, la proiezione visionaria del Grand Tour, che aveva sino allora trovato espressione nella personale creatività artistica dei suoi protagonisti, pittori e scrittori i quali illustravano direttamente le proprie memorie, come nel caso celeberrimo del Viaggio in Italia di Goethe, trovava nella fotografia la possibilità di documentare, senza i limiti delle capacità personali, città, paesaggi, opere d’arte, dando così origine a un crescente e florido mercato editoriale.
Dall’altro lato, le immagini a tre dimensioni, che scaturivano dalla simulazione fotografica della visione bioculare, davano letteralmente corpo alla coattiva intenzione del fotografo di «impadronirsi di ciò che vede, di ciò che si manifesta davanti a lui, e di portalo via con sé», come scrive giustamente Alberto Manodori Sagreto, curatore della mostra, nella sua esauriente introduzione al catalogo.
Forse, sta proprio in questa doppia violazione che la visione fotografica comporta, quando sottrae una immagine al flusso degli eventi e quando la riproduce “per eccesso” nei visori stereoscopici, il fascino di quella mediazione in più con cui viene risarcita quella mediazione in meno che la fotografia impone alla realtà.
Che sia una questione di segreti da custodire e da violare al tempo stesso viene suggerito dalla considerazione dello stesso Manodori Sagreto, il quale sottolinea la fortuna che, con la fotografia stereoscopica, ebbero le immagini di nudo, prime spacciate sotto l’egida dell’arte, poi disponibili, in fogge assai meno artistiche «presso compiacenti librerie e soprattutto presso più emancipate barberie».
Anche in questo caso, una realtà messa a nudo dietro le complici lenti del visore, «come quando, ineducatamente, si accosta lo sguardo al buco di una seratura»: «Proprio l’obbligatorietà di utilizzare il visore individualmente, consentiva, infatti, una visione del tutto personale, fatta di alcuni momenti individuali, senza possibilità di condivisione con nessun altro, se non nei momenti successivi alla stessa visione