di VINCENZO SUSCA
Ormai quarant’anni fa McLuhan scriveva che i media sono le estensioni dei nostri sensi, le protesi attraverso le quali raffiniamo le nostre azioni, modelliamo il senso e la forma dell’ambiente in cui viviamo e riconfiguriamo la natura delle nostre relazioni interpersonali. I mezzi di comunicazione intensificano la qualità e l’intensità del proprio ruolo, la pregnanza e l’indispensabilità della loro presenza, nel momento in cui penetrano nel tessuto della vita quotidiana e ivi si impongono come lacci relazionali e, ancor di più, come serbatoi affettivo-emozionali. In queste tecnologie e forme culturali si addensano, distribuiscono e incrociano oggi gli elementi banali sui quali la socialità si fonda: gli affetti e i simboli condivisi. Esiste un altro modo di interpretare l’onda di successo che investe, per esempio, i reality shows contemporanei e le soap operas? Successo che rifugge dalla tentazione intellettualistica nostalgica delle belle forme del romanzo o del teatro borghese e riparte proprio dal ri-assegnare alla dimensione dell’effimero e del banale la sua ricchezza semantica insieme alle sue doti di fecondazione e strutturazione del sociale.
Nei salotti più nobili della televisione italiana, così come negli editoriali della stampa (sempre più elitaria e colta nella misura in cui risulta sempre più snobbata e ignorata) si levano gracchianti voci contro il kitsch trasmesso dal Grande Fratello (e simili), contro i variegati incesti emessi da Beautiful (e simili), contro il sensazionalismo, le nostalgie e i pianti evocati dalle piccole grandi storie raccontate da Raffaella Carrà (e simili), contro la pattumiera che prolifera nel diluvio comunicativo della Rete. Sono gli stessi che ormai due secoli fa inveivano contro lo scadimento apportato dal feuilleton rispetto al grande romanzo, gli stessi che hanno contrapposto il neorealismo ad Hollywood; gli stessi che ancora non si sono accorti del punto di catastrofe in cui versa la cultura di massa legata ai media generalisti.
«La mia vita non mi basta, ho bisogno di vivere anche le vite degli altri». Dobbiamo partire dalle suggestioni evocate da questa frase di Elias Canetti per capire cosa si cela dietro le manifestazioni affettive e alle spalle dei processi di identificazione sostenuti dai media. Nelle strade delle nostre città, nei mercati, nei bar e anche nei corridoi delle università si dipanano una serie di pettegolezzi e «chiacchiere» sulla relazione amorosa catodica tra Ascanio e Katia del Grande Fratello. Non credo che davvero interessi a qualcuno la natura del ménage in questione, né il suo destino. I due ragazzi, invece, sono dei simulacri – in una società contraddistinta dall’indistinzione e dalla confusione tra il reale e l’immaginario – attraverso i quali si mettono in scena e in gioco le forme relazionali e le strategie seduttive che caratterizzano i giovani contemporanei. Radicalizzando l’ipotesi mcluhaniana, possiamo rintracciare nei due protagonisti del Grande Fratello le protesi delle nostre vite.
Il sociologo canadese ha scritto che «in TV il pubblico è lo schermo»; i suoi protagonisti, quindi, possono essere visti come i nostri avatar. Gli spettacoli basati sulla banalità – da sempre fondante – e sulle «piccole cose di pessimo gusto» non fanno altro che prendersi carico della leggera pesantezza del vissuto quotidiano, lasciando agire le pulsioni più profonde che in questo ambito si generano e ri-generano. Le nostre identità collettive e personali non si negoziano, strutturano e investono più, secondo uno schema verticale, sui grandi personaggi – i principi, gli eroi, gli artisti, gli intellettuali – e sulle grandi narrazioni – ideali, religioni, progetti politici – bensì vengono modellate dal basso e sulla base del più acuto presenteismo, in cui la tentazione del carpe diem prevale sul sacrificio nel presente per il futuro che verrà.
Attraverso i personaggi del Grande Fratello, i protagonisti di Beautiful e quanti altri si agitano e liberano le nostre passioni personali e collettive, si estendono e negoziano le dinamiche della nostra socievolezza, si destrutturano, contrattano e prolungano le nostre identità. La nostra proiezione collettiva sullo schermo come pelle sociale provoca una serie di azioni e retroazioni attraverso le quali si scompongono e ricompongono le simbologie e le passioni collettive – il nostro immaginario. Lo spettatore in questo quadro non può essere passivo, perché continuamente chiamato a inserirsi fattivamente nel mosaico televisivo per chiuderne e negoziarne il senso, per mobilitare, sciogliere e fare agire le maschere del proprio sé multiplo. La televisione continua, quindi, nonostante la crisi dei linguaggi generalisti, a conservare un’importante funzione di cristallizzazione e canalizzazione di immaginari e passioni. La televisione continua a essere, insieme alla Rete (che tuttavia lentamente ma inesorabilmente ne corrode la funzione e ne prende il posto), il custode e il principale serbatoio del nostro immaginario.
Durkheim, riferendosi a tutt’altro momento storico, sottolineava l’esistenza e la significatività sociale dei «riti piaculari», momenti in cui un determinato gruppo si ritrova a piangere insieme per una determinata causa. Non è tanto l’oggetto e la ragione attorno alla quale ci si riunisce il cuore e il centro del fenomeno, quanto il mero fatto di trovarsi insieme e stringersi in un abbraccio collettivo, fenomeno attraverso il quale una comunità si riscopre come tale cementandosi attorno a passioni condivise. I reality shows adempiono la stessa e identica funzione, non assumono importanza per l’estetica o per il significato del proprio contenuto, quanto per il gioco di specchi che alimentano con il corpo sociale e, ancor di più, per lo scambio affettivo, emotivo e simbolico che riescono a proporre al pubblico.
Anche in questo caso il mezzo è il messaggio e il messaggio ultimo siamo noi. Il medium diviene non solo una protesi dei nostri sensi, ma persino un’estensione del sentimento collettivo, il luogo immateriale in cui si concentrano e sostanziano le pratiche neo-comunitarie del «vibrare insieme» attorno a dei totem per fissare, confermare o rinnovare la natura, lo status e i simboli di un determinato insieme sociale. La TV e ora anche la Rete, quindi, prendono in carico le emozioni condivise, le risocializzano e rinnovano attraverso le proprie dialettiche linguistiche, riconfigurandole infine in trame neo-comunitarie.
«Non potendo più conformarsi, adeguarsi, assimilarsi a una superior forma dominatrice, l’anima sua, camaleontica, mutabile, fluida, virtuale si trasformava, si difformava, prendeva tutte le forme».
(Gabriele D’annunzio, Il piacere, 1889)
Lo spirito del tempo si ridefinisce attraverso la dialettica oscura che si tesse sulla nostra pelle sociale tra i drammi dello Stato e quelli dei media. La strage di Nassirya, l’assassinio di Aldo Moro, la tragedia dell’11 settembre, la malattia e l’afflizione del Papa, costituiscono gli eventi sui quali vengono ribadite e ripristinate le trame della cittadinanza in senso moderno (legata quindi all’appartenenza nazionale, alla solidarietà occidentale, ai valori cattolici e all’etica del lavoro), mentre il funerale di Alberto Sordi, l’assassinio dell’ispettore Paolo Libero della tele-fiction Distretto di Polizia, la tragica morte di Taylor Ace di Beautiful, gli strazianti pianti «prodotti» da Raffaella Carrà, si prestano a essere gli pseudo-eventi attraverso cui legittimare le pulsioni al consumo e allo spettacolo, l’etica del loisir, la jouissance e l’edonismo postmoderni.
Le istituzioni collegate con un filo rosso alla Modernità (Stato, Chiesa, partiti, sindacati eccetera) sono in competizione con gli apparati dei media e del consumo per orientare le strategie di identificazione della collettività. Le prime ordiscono le proprie trame e orientano le proprie grandi morti e tragedie per modellare la «nuda vita» rispetto ai canoni del buon cittadino moderno (credente, nazionalista, alfabeta, lavoratore, riconducibile a un’identità collettiva e sociale prestabilita, pronto a sacrificare il proprio presente per un progetto a lungo termine). Le seconde inventano tragedie (le morti virtuali che hanno portato milioni di persone a piangere e a protestare per la morte di Taylor o di Paolo Libero) o amplificano e simbolizzano intensamente i decessi reali delle proprie star per sostenere e assecondare la strutturazione di un �tre-ensemble ri-fondato sulla figura ideal-tipica del consumatore non più cittadino (che privilegia l’interesse particolare suo e della sua tribù di appartenenza rispetto all’interesse generale, irriducibile a un’appartenza identitaria legata al luogo, allo spazio o alle ideologie).
Si tratta in entrambi i casi di apparati e strategie ideologiche: l’ideologia dello stato contro quella dei media e delle merci. L’elemento che consegna più potere e più energia alla media-sfera è dato dalla sua natura intrinseca di costituire l’estensione e la protesi di noi stessi. I media non sono apparati che sorgono dall’esterno – come invece appaiono oggi le istituzioni e i soggetti forti della modernità – ma dall’interno e dal fondo del corpo sociale, costituendone insieme l’interfaccia e l’habitat. Governare l’immaginario, inoltre, è un’impresa sempre più ardua per istituzioni che non possono contare più sulla proprietà degli apparati dell’immaginario e che sono quindi prive della loro storica «autonomia simbolica». Qualsiasi messaggio, icona o evento può essere trasmesso solo all’interno del frame e del linguaggio mediale, corrompendo quindi in tutto o in parte il carattere e la sua purezza originari.
All’interno di questa guerra di icone il pubblico, in ogni caso e comunque, non gioca il ruolo di spettatore passivo, ma sempre più riveste quello di «spett-attore» che attiva ora strategie di resistenza, ora di consumo produttivo e ora di identificazione proiettiva. Il fluido e nomade consumatore-attore-spettatore, fino alla sua trasmutazione in cybernauta, si trova al centro della scena, nel bel mezzo dei flussi attraverso cui gli apparati produttori di valori e icone, simbolizzando tragedie e storie ordinarie, spiegano le proprie strategie di conquista. Dalla dimensione privilegiata del quotidiano manipola, contestualizza, assorbe, sovverte, adatta e trae a sé (fa sue) le simbologie trasmessegli, le mette in azione e in relazione rispetto al proprio «esserci» per sostenere le proprie tattiche di sopravvivenza, per rimodellare la propria pelle e affinare la natura del proprio sé multiplo.
La mutazione antropologica legata al passaggio ai new media come cuore e nuovo paradigma del sistema mediale – quindi dall’esteriorità e dalla pesantezza dell’industria culturale all’interiorizzazione leggera e portatile delle nuove tecnologie come pelle della cultura – rende ancora più forte e più concreta la focalizzazione sul ruolo cosmogonico della persona nel nuovo contesto glocale. Lungi dal costituire un mero dispositivo di riattivazione dei moderni processi di razionalizzazione dell’esistenza, i nuovi media e le reti costituiscono invece i dispositivi attraverso i quali reinvestire sull’aspetto immaginario, patemico, relazionale e simbolico dell’abitare, quindi rimettendo in gioco gli elementi da sempre fondanti della socializzazione: il banale e il tragico dell’esistenza.
Secondo Simmel il modo privilegiato per studiare e capire efficacemente la strutturazione e l’anima di un insieme sociale richiede proprio di concentrarsi sui suoi elementi più banali ed effimeri, sulle forme nelle quali si sintetizzano i costumi e le abitudini collettive. I reality shows, le soap operas, le tragedie e le piccole storie narrate dai media, e ora anche i vissuti e le identità che si plasmano e ristrutturano nelle reti, oltre il senso del luogo e del tempo ci restituiscono, nella sua totalità, il volto della società postmoderna, scardinata dalle «grandi storie» scritte da pochi (nell’interesse di pochi) sulla pelle e sui corpi delle masse al fine di inscriverle in progetti astratti e a lungo termine.
La dimensione postmoderna reinveste sul brulicante movimento del «vissuto quotidiano» e non sulle grandi astrazioni, sulle forme aggregative ed estetiche emergenti dal basso del tessuto sociale e non sulle forme artistiche elitarie e verticali, sui linguaggi e i piaceri multipli del corpo e non sulla rigidità del pensiero critico e dei linguaggi alfabetici. Sullo schermo e sulla nostra pelle ridisegnata e vestita delle nuove tecnologie culturali vi è inscritto il volto e l’anima di quello che Simmel chiamava il «re clandestino», il sovrano intangibile e defilato quanto reale e vivente di una determinata epoca, il suo potente e ineluttabile immaginario. Ignorarlo, falsificarlo, eluderlo o negarlo serve solo a esacerbare e rendere più aggressiva la sua corrosiva e sotterranea azione rigenerante, ad acuire lo scisma sempre più pericoloso tra la «società che pensa e governa» e quella che «vive in-governata».
Vincenzo Susca, dottorando di ricerca in Sciences Sociales («La Sorbonne», Parigi) e in Scienze della Comunicazione («La Sapienza», Roma), svolge attività di ricerca all’ISIMM.