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    Cucina tecnologica: il caso Bottura

    Nella Osteria Francescana di Modena, Massimo Bottura, uno degli chef oggi più reputati, mette in pratica la sua esperienza internazionale nel campo della cucina tecnologica, ripensata con una personale sensibilità per il mondo dell’arte e della musica.

    di Alessandro Ovi

    Non deve apparire strano che la nostra rivista si occupi di tecnologie per la cucina. La recensione di Corby Kummer della gigantesca opera Modernist Cuisine lascia infatti intravvedere un mondo assolutamente inatteso di applicazioni della fisica, della chimica, della scienza dei materiali che, tramandate sotto forma di semplici “ricette” fino a poco tempo fa, oggi si propongono organizzate in modo scientificamente e tecnologicamente rigoroso.

    Quello che invece potrebbe apparire strano è che la edizione italiana di “Technology Review”, a completamento della ottima rassegna pubblicata dalla edizione americana, si addentri nel delicato terreno che dalla tecnologia si estende verso l’arte e la ricerca della “memoria”, con la storia del Caso Bottura.

    Massimo Bottura, dopo aver proseguito la formazione a New York, nel 1995 rientra nella sua Modena, dove rileva una trattoria di tradizione, l’Osteria Francescana, iniziando a sperimentare una cucina più creativa. Nel 2000 lo chef catalano Ferran Adrià, padre nobile della “cucina molecolare”, dopo essere stato in visita alla Osteria Francescana, invita Bottura nel proprio ristorante a Roses in Spagna. Qui lo chef emiliano apprende una cucina che sfrutta a pieno le tecnologie e le conoscenze scientifiche. Nella Osteria Francescana di Modena la tecnologia è sempre importante, ma viene lasciata quasi sullo sfondo, chiaramente confinata al ruolo di “strumento” e non di “protagonista”.

    Tecnologia, arte, memoria
    nell’Osteria Francescana

    Nel centro di Modena, in una via stretta e scura, c’è il ristorante, quasi nascosto, schivo nel mostrare le sue due stelle Michelin. Lì vicino si apre la porta del “laboratorio”.

    Colpisce entrando che la persona che mi accoglie, Enrico, si presenti come ingegnere, laureato a Milano. «Bottura arriverà tra poco», dice, «ma intanto possiamo guardare insieme un poco di tecnologia». Conosce bene Modernist Cuisine, ma non è ancora riuscito ad averne una copia, malgrado lo avesse inserito nella lista dei suoi regali di nozze. Alcuni degli apparati descritti nella monumentale opera di Nathan Myhrvold fanno bella mostra di sé sul bancone.

    Contenitore termostatico per cottura a bassa temperatura di cibi sottovuoto. Il cibo viene cotto non a contatto con l’acqua, ma, anche per tempi lunghi, a temperature rigorosamente costanti, diverse per ogni tipo di cibo: per esempio, la guancia di vitello a 68 C, il merluzzo a 50 C, la coda di vitello a 75 e via dicendo. I vantaggi rispetto alla cottura tradizionale ad alta temperatura sono rilevanti: accentuazione di sapori ed aromi delle vivande, che rimangono più naturali; cotture che mantengono più teneri gli alimenti; minore dispersione di vitamine e sali minerali, in assenza di aria e liquidi.

    Concentratore sottovuoto. Si tratta di fatto di un apparato di distillazione che permette sia di concentrare liquidi e sughi, sia di estrarre la parte aromatica da cibi solidi (come le parti meno nobili di un arrosto).

    Sifone. Un contenitore in pressione con un ugello sottile, che emulsiona con aria qualunque elemento sufficientemente vischioso (panna, mortadella e infuso, paste di farina). Il gas in pressione può essere azoto, se si vuole mantenere la fragranza del momento anche dopo la preparazione, o anidride carbonica, se si vuole conferire al cibo un effetto frizzante.

    Ma questi, e altri, sono solo strumenti; non sono l’anima della Osteria Francescana e, appena arrivato, Bottura cosa sia quest’anima, lo spiega in poche parole: «La vera sperimentazione che si fa qui, e che ci ha permesso di essere “attuali” in ogni parte del mondo, è la sperimentazione sul “tempo” e sulla “memoria”». Il “tempo” è ciò in cui qui in Emilia siamo maestri grazie a secoli di esperienza con la nebbia, la brina, il caldo, l’afa, che esaltano la parte lenta del modo di pensare. Le tante stagionature del Parmigiano, oltre i 36 mesi, dell’aceto balsamico, decenni e decenni, la ricerca della perfezione nel culatello ribadiscono la necessità di trasmettere con il cibo la memoria di un posto, grazie a preparazioni di piatti che sanno dare le sensazioni dell’arte contemporanea, di un artista come Lucio Fontana, o della musica jazz, di un pianista come Thelonius Monk.

    Tutte le lingue del mondo

    Osservando alcune delle realizzazioni di Bottura, possiamo concretamente renderci conto del senso profondo di questo concetto che intreccia tempo, memoria e arte e che costituisce il “paradigma” esclusivo di Bottura e della sua Osteria Francescana.

    L’associazione con Lucio Fontana emerge forte e chiara nel piatto La lingua del mondo.

    La lingua, tagliata in un cubetto, compare da un taglio, tipico di tutti i quadri di Fontana, all’interno di un involucro composto di un impasto di sale, caffè e carbone vegetale, quasi a formare una piccola meteorite. «Un mondo parallelo», spiega Bottura, «un piccolo pianeta del gusto. Il tutto va cotto in forno. Dentro a questo involucro, la lingua spurga tutta la componente grassa e ne rimane un pezzo di carne tenero come il burro, che si scioglie in bocca. L’involucro esterno, una volta tolto, lascia una carne che profuma di fumo, generando un’emozione che ha qualcosa di mistico, che ricorda i riti degli indiani d’America. Poi c’è l’aroma del caffè, che fa viaggiare la mente verso i paesi del Sudamerica».

    Una volta pronta, la lingua viene servita in abbinamento a composte esotiche: c’è la salsa al coriandolo, reinterpretazione della salsa verde utilizzata tradizionalmente per il bollito di carne, dove il prezzemolo viene sostituito dalla spezia esotica; c’è la mostarda di mele campanine, tipica della tradizione mantovana; c’è la crema di frutto della passione, dove i semi amari del frutto vengono sostituiti da semi di basilico; c’è il ceviche, marinatura di pesce e frutti di mare al limone, unita ad alcune spezie come il peperoncino e il coriandolo, tipica del Perù.

    Nero su nero. Omaggio
    a Thelonius Monk

    Il jazzista Monk era un nero. Le presentazioni dei concerti jazz vengono spesso corredate con fotografie in bianco e nero. Il nero era il colore preferito dagli esistenzialisti francesi che erano seguaci del jazz moderno proposto da Monk.

    Il jazz è solo suono, non ha bisogno di colori per farci entrare nel suo mondo che, anche se monocromatico, sa suscitare mille sensazioni. Così in questo piatto quasi tutto sarà nero: il pesce, l’intenso brodo nero sviluppato con la tecnica Katsuobushi-sud e realizzato con nero di seppia e salsa di soia. Poi gli spaghetti di verdure, anch’essi anneriti e aromatizzati con zenzero, olii aromatici, limone e altri microelementi.

    Il risultato è una decostruzione delle parti che lascia sussistere la forma, ma modifica l’effetto ottico e olfattivo. Si identifica la qualità delle verdure attraverso il cibo e si ricevono sempre più piccoli lampi aromatici presenti fino dalle prime supposizioni sui microelementi. E tutto, naturalmente, sa di nero, perché il gusto del nero di seppia si deposita, naturalmente, su tutto.

    Chicken, chicken, chicken,
    where are you?

    Il piatto si presenta come una meditazione coloratissima sulla presenza dell’elemento “spore di pollo arrosto” e la sua contemporanea assenza. Il pollo è evocato in maniera manifesta, anche se siamo costretti a razionalizzare il fatto che ciò che stiamo ingerendo è composto sostanzialmente da semplici verdure.

    Il piatto è simile ad un cubo di Rubik, complesso dal punto di vista delle combinatorie sensoriali, a seconda del cibo che capita in bocca per primo. Ma come può esserci comunque quel sentore finale di pollo arrosto? L’aroma è il risultato della concentrazione attuata su ali di pollo, dove la pelle, con il suo marcato sapore, gioca un ruolo fondamentale nel trasferire al “distillato” il suo profumo.

    After Midnight

    Infine, una delle ultime gradi sorprese di Bottura, ripresa come evento speciale in tutto il mondo.

    «Il nome del dolce, After Midnight, deriva dal celebre brano di J.J. Cale, che parla di cosa succede dopo mezzanotte», spiega Bottura. «Nei peggiori bar sudamericani si beve il rum. Fumo, caffè, eccitazione, Rock&Rum e poi, naturalmente, le donne. Respiri sensualità tutto intorno a te. Quindi abbiamo iniziato a creare il piatto da qui, da questi luoghi e da queste sensazioni. Intanto è After Midnight e non After Eight: quando penso al rum penso al cioccolato e il cioccolato a sua volta mi fa pensare all’After Eight, quindi alla menta, di cui però dopo quattro ore (perché midnight sono quattro ore dopo le otto) non resta se non un piccolo ricordo. Poi c’è il fumo e quindi abbiamo creato una bavarese di cioccolato in purezza che viene affumicato in una infusione di foglie di tabacco. Infine suggeriamo di immergere le mani in un grande bicchiere di rum, di sfregarle tra loro per permettere al profumo del liquore di farsi sentire, di usarle per portare il dolce alla bocca. La mano diventa così veicolo delle note di cuoio e tabacco del rum in tutta la loro potenza olfattiva e nell’atto stesso di portare il dolce alla bocca, mentre il sapore di spezie, vaniglia e cioccolato del rum sono entrate in contatto col dolce spalmato sul piatto: bavarese bianca al tabacco, cioccolato bianco e infuso di chicchi di caffè, una parte “molto animale” di foie gras e fegato di faraona con cioccolato peruviano, una salsa alla menta, mandorle dolci e salate pralinate e, unico elemento intero, un soffiato ghiacciato (è quello che ha tutta l’aria di essere un biscotto al cioccolato, ma non lo è)» (fotografia 4). Il “dolce” diventa una esperienza, un ricordo di sensazioni quasi carnali, e a differenza del Nero su Nero, cibi e sapori diversi sono questa volta ben visibili e non nascosti nel nero di seppia. Il filo conduttore che li lega è l’aroma del rum che crea insieme a loro un ambiente dove tutti i sensi vengono messi in gioco.

    La cucina di Bottura e della sua Osteria Francescana è racchiusa in questi pochi esempi di opere gastronomiche, che non a caso il grande critico Achille Bonito Oliva ha definito vere opere d’arte del sesto artista della Transavanguardia (come si sa, gli altri cinque secondo lo stesso Bonito Oliva sono Sandro Chia, Francesco Clemente, Enzo Cucchi, Nicola De Maria e Mimmo Paladino).

    Abbiamo sottolineato che la tecnologia che non è certo qui la “primadonna”, ma resta il vero e unico strumento di integrazione tra la conservazione delle qualità originali del cibo, delle materie prime, e la loro concentrazione, il loro distillarsi in tracce creatrici di sensazioni che riportano alla memoria, con le sembianze dell’arte, ricordi e storie passate o comunque lontane nel tempo e nello spazio.

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