Come si fonda la comunicazione in termini di legittimità intersoggettiva? Come si è stratificata nel tempo? Come interferisce con la crisi sociale e con la tematica, altrimenti incerta e indecifrabile, della cosiddetta crisi dei valori? Ancora una volta, bisogna affrontare le contraddizioni dei media studies.
di Mario Morcellini
Per uno studioso di comunicazione, il primo problema è quello di capire come mai il proprio oggetto di studio – la comunicazione, appunto – sia diventato una realtà intoccabile e prepotente. è un tema di meditazione impegnativo e severo, perché fa emergere lentamente la sensazione che siamo arrivati a una fase di imperialismo dei media, abilmente mascherato dietro la magniloquenza delle liturgie linguistiche e degli immaginari mediali. Soprattutto di quelli nuovi. Sta diventando un universo totalitario.
Tutto ciò è paradossale se si considera che, in un tempo in cui tutto entra in discussione, solo la comunicazione è risparmiata. Com’è possibile? Occorre partire dal presupposto che sono proprio i media a costruire i ritmi e i tic di un discorso pubblico in cui qualsiasi dimensione della vita e qualunque autorità sono prima o poi screditate; questa circostanza fa sì paradossalmente che la comunicazione si sottragga alla discussione critica (e ancora più a quella autocritica). In un tempo in cui tutte le dimensioni della vita pubblica sono accompagnate dal sospetto e dalla delegittimazione, c’è un espediente sicuro: l’attacco preventivo.
Per citare solo qualche prova intuitiva, si pensi alla capacità della comunicazione nel rendere precari tutti i soggetti sociali, quando lo tzunami dei media, o quello del giornalismo partigiano, si avventa su una persona, cambiandone radicalmente lo status. Ma questo modello vale anche e soprattutto per le collettività e per i sistemi sociali. Si pensi, solo per osservare la stretta attualità, ai climi di opinione a lungo costruiti contro gli impiegati e i templi della burocrazia, o più recentemente a quelli che hanno coinvolto tassisti, autotrasportatori, il “movimento dei forconi” e via dicendo. Ma l’occhio della comunicazione ha toccato in un passato anche recente il personale pubblico e gli apparati burocratici, frazioni del personale politico, i professori universitari.
Gli studiosi che più copiano gli stilemi americani diranno che è un caso rigoroso di agenda setting; ma ci vuole coraggio ad accontentarsi di questa frigida etichetta scientifica. A vedere bene, è la bolla speculativa del tempo moderno.
La conclusione di questa prima rapida osservazione degli stili cognitivi del discorso pubblico sulla comunicazione è che essa è indulgente con se stessa, ma non risparmia gli altri. Riesce a riclassificare persino i poteri forti, come la politica, l’economia, le professioni, la giustizia, ma un’analisi più in profondità deve prendere in considerazione l’ipotesi che le conseguenze sociali della comunicazione si confondano – in un processo in cui il meccanismo causale è incredibilmente interferente – con la cosiddetta secolarizzazione. La comunicazione è stata la Gazzetta Ufficiale delle mitologie e dei complessi di superiorità di quello che è stato definito, con bella sicurezza, il “progetto moderno”.
Capire il “tempo nuovo” oltre il vincolo dei dati statistici
La posizione del problema sembra assunta in toni assertivi, per un obiettivo di provocante chiarezza. è chiaro però che può venire riapprofondita in termini più impegnativi di analisi storica e scientifica, che si imperniano su due dimensioni: quanto abbiamo capito il “tempo nuovo”, anzitutto, ma anche come si possono affrontare nodi concettuali e culturali così impegnativi entro un discorso che conservi una logica argomentativa non necessariamente affidata al fragore delle percentuali.
L’imperativo di leggere e interpretare il tempo in cui ci è capitata la ventura di vivere e di conoscere – il tempo che stolidamente definiamo “nuovo” – è talmente ovvio per i ricercatori e gli studiosi da essere considerato deontologicamente decisivo. Tuttavia, riguarda tutti gli uomini che pensano e non vivono sventatamente il proprio tempo. Diventa, però, eticamente più urgente per chi si assume il compito di studiare i media e quello ancora più delicato di formare alla comunicazione. Entro quest’ottica, la missione di preparare giovani (e comunque persone) ai compiti e alla responsabilità di comunicare deve fare i conti con un’analisi intransigente di quello che sappiamo dello sviluppo storico dei media. Non si può capire il tempo nuovo senza porci il problema delle “conseguenze inattese” delle tecnologie comunicative, senza alzare lo sguardo alla relazione che si è storicamente costituita tra comunicazione e società.
Quanto al secondo nodo, occorre ammettere con serenità che una problematizzazione dell’impatto dei media ha bisogno di una sospensione delle garanzie rituali della verifica scientifica. Più i problemi diventano profondi, più diventano scivolosi a livello di rendicontazione empirica, soprattutto in termini di rapporto tra annuncio dei nodi problematici e possibilità di verifica. Il rischio risiede nella deriva di una denuncia magari gratificante, ma eticamente inefficace dei mali della comunicazione.
Posto questo caveat, diventa più semplice un interrogativo altrimenti troppo vasto e dunque sfuggente: come cambia la vita sotto la sferza della comunicazione? Quali soggetti sembrano più disponibili a subire la forza modificatrice di una comunicazione simbolica arrivata a un livello di diffusione e di potenza inimmaginabili solo pochi anni fa? In quali condizioni si determina un contesto favorevole – se non un terreno di coltura – per un vero e proprio trionfalismo dei media e della loro scintillante vetrina di messaggi e immaginari intensamente reiterati?
è un insieme di domande che costituisce un punto di vista più solido e strategico per studiare la modernità. Riprendendo e radicalizzando le considerazioni di Communication bug, nell’ultimo fascicolo dello scorso anno, vogliamo perseguire l’obiettivo di una critica argomentata della cultura moderna fondata sulla comunicazione. Una critica che dichiara subito anche un intento autocritico, sia personale, sia come parte di una comunità scientifica che è stata forse troppo incline ad accontentarsi dell’aspetto innovativo intrinseco alla diffusione sociale dei media. è legittimo il dubbio che la comunità dei media studies si sia sostanzialmente accasata sulle bellezze della comunicazione moderna e sui bollettini di vittoria del suo espansionismo latifondista; a maggiore ragione è venuto il momento di esplicitare con nettezza differenze e riserve culturali.
Più chiaramente che in passato, siamo oggi in condizione di osservare le conseguenze sociali ormai stabilizzate di un impatto che è stato poco graduato, per nulla governato dalle élites politiche e culturali, scarsamente tematizzato dalla stessa scuola, senza dimenticare il posizionamento opportunistico dei genitori nei confronti del carisma di quei media che ogni generazione considera nuovi. è impossibile non ammettere che tutti abbiamo subìto la ventata di modernità intrinsecamente connessa all’esperienza sociale di media “forti” sia sul piano linguistico, sia su quello dell’immaginario, al punto da determinare un credito sociale che rasenta l’idolatria. Non si deve dimenticare che quest’ultimo sostantivo allude alla costruzione umana di artefatti chiamati a rappresentare il bisogno di simbolizzazione e spesso di trascendenza, che ha sempre accompagnato la vicenda degli uomini.
Il potere dei media e la “sapienza della trasmissione”
Avendo citato in giudizio anche i soggetti chiamati a una responsabilità di mediazione, dai politici ai docenti, dagli intellettuali ai genitori, è giusto ricordare che un rischio di inadeguatezza c’è stato anzitutto nelle comunità accademiche degli studiosi e dei ricercatori. Chi leggerà tra qualche tempo il lascito e i documenti di questa tribù scientifica, avrà la sensazione che, nel loro insieme, i media studies siano parte integrante dell’imperialismo della comunicazione, invece che luogo deputato di autonomia e di giudizio sul suo sviluppo e sul suo lascito. Meglio allora scegliere un punto di osservazione assolutamente indipendente dal trionfalismo dei vincitori e dalle mode dominanti (idola fori) nel dibattito culturale.
Comincia ad apparire evidente che molte ragioni invitano a prospettare quel principio di attenzione verso il futuro che va sotto il nome pudico di “riduzione del danno”. Le domande più semplici di questo approccio riguardano la presa di coscienza sull’eccesso di credito che la comunicazione può vantare nel nostro tempo. Queste domande fanno capire quanto spesso gli studi e la riflessione teorica abbiano sostanzialmente eluso i nodi concettuali solo perché non erano formulabili in termini di validazione empirica, sempre ammesso che non abbiamo tutti subìto la dominazione delle mode o, peggio, il compiacimento per il nuovo dispositivo forte del nostro tempo. Siamo arrivati in ritardo a elaborare il termine della dis-intermediazione; ancora più lentamente abbiamo preso atto che aveva bisogno di una documentazione empirica e teorica.
In generale, questo deficit è leggibile come segno di un cinico realismo degli studiosi: se la modernità, e soprattutto i giovani, dichiarano di considerare la mediazione come un luogo polveroso o un residuo del passato, ecco che i ricercatori sono subito pronti a “scoprire” le nuove potenzialità della parità nella socializzazione, senza rendersi conto del paradosso semantico e soprattutto etico a cui si dà luogo. Ma questa seconda scoperta è meno allineata con i salotti buoni della discussione pubblica. Di conseguenza, finisce per sfuggire il costo sociale e valoriale della disintermediazione, oltre alla coerente necessità di inventare risorse di benessere compensative del crollo dei punti di riferimento stabili. Eppure, la stessa osservazione delle dimensioni devastanti della crisi del capitale sociale suggerisce un principio interpretativo di tante forme di autodistruzione e di nuova dipendenza, così vistose nel nostro tempo.
Provando a separare i problemi in campi specifici e pertanto più documentabili, l’interrogativo si trasforma in domande più selettive: in che misura il surplus di potere dei media finisce per spiazzare tutta la “sapienza della trasmissione” e cioè quei segmenti caratteristici della storia, che consistono nell’educazione dei nuovi venuti, nel passaggio all’età adulta, nell’assunzione di cittadinanza, nell’acquisizione graduale dei valori e dei climi culturali di una società e di una comunità. Sappiamo che la comunicazione dà il meglio di sé quando fa emergere la natura intimamente pubblica dei beni; ma sappiamo altrettanto chiaramente che ha riclassificato la reputazione e la stessa desiderabilità sociale della scuola, della politica, della religione, al punto da rubricarle come sopravvivenze del passato. Ma come funzionano davvero le relazioni tra l’ipertrofia dei messaggi e le sconfitte delle istituzioni sociali “tradizionali”? Dobbiamo cercare di capirlo urgentemente, se si considera che tutto ciò non è privo di conseguenze operative per chi voglia intervenire sul clima culturale, rimettendo in discussione i capisaldi del “pensiero unico” della comunicazione.