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    Contro Freud, ma perché?

    Le ricorrenti critiche alla psicoanalisi freudiana riflettono la persistente difficoltà a concepire la conoscenza scientifica in termini non referenziali, ma interpretativi.

    di Gian Piero Jacobelli

    Almeno una volta ogni lustro (il proverbiale rito latino di purificazione quinquennale) qualcuno ritiene necessario prendersela con Sigmund Freud e con la psicoanalisi freudiana, dove la precisazione ha senso nella misura in cui apre la strada ad altre metodologie analitiche per così dire più “liberali” o più “suggestive”.

    Dieci anni fa (per la precisione, nel 2002) era successo con un ponderoso volume (Mensonges freudiens) ancora non tradotto in italiano, in cui Jacques Bénesteau, uno psichiatra infantile francese, accusava Freud di tutte le malefatte intellettuali possibili: dal punto di vista scientifico, quella di non conoscere altra via d’accesso alla verità, o presunta tale, se non la propria; dal punto di vista personale, quella di perseguire sistematicamente un obiettivo agiografico che trasformava i pazienti in cavie della nascente “terapia della parola”.

    Muovendo da Freud, Bénesteau non faceva sconti a nessuno: l’assenza di effetti terapeutici superiori a quelli prodotti dalla sola suggestione dovrebbe distruggere, infatti, le pretese degli analisti di ogni orientamento, nella misura in cui trovano nei loro pazienti i fantasmi che desiderano trovare.

    «Per Lacan, l’inconscio è strutturato come un linguaggio, per Otto Rank è agitato dal trauma della nascita, per Alfred Adler è abitato dal senso di inferiorità, per Melanie Klein è sconvolto dal seno smembrato della madre. Per Freud è il serbatoio dei desideri sessuali rimossi nella infanzia e nella preistoria dell’umanità, mentre per Jung l’inconscio è un museo completo di antichità pagane, trasmesso di generazione in generazione come eredità di caratteri acquisiti. Perché le conoscenze biologiche degli analisti si sono fermate al lamarckismo e non hanno mai integrato la gestione delle prove accumulate in senso contrario da oltre un secolo». Come dire: una scienza sa soltanto quanto vuole sapere.

    Qualche anno dopo, nel 2005, viene pubblicato a Parigi Le livre noir de la psychanalyse, a cura di C. Meyer, tradotto l’anno dopo anche in Italia con il titolo Il libro nero della psicoanalisi. Le due considerazioni critiche, quella di presumere troppo di sé e troppo poco dell’altro, confluiscono in una critica generalizzata nei confronti di tutti coloro che, in un modo o nell’altro, si sono occupati di psicoanalisi. Ancora più radicale appare la recentissima posizione di un filosofo, Michel Onfray, che gode di una larga popolarità in tutta Europa e che si è fatto carico di “smantellare le favole freudiane”, come recita il sottotitolo di un saggio intitolato anche nella edizione italiana (Ponte alle Grazie, 2011) Crepuscolo di un idolo.

    Non ce ne occuperemmo, se non fosse per la sorpresa che un filosofo certo non determinante, ma comunque interessante, come Onfray, abbia investito tempo e fatica – il saggio conta 350 pagine – per dire tutto il male possibile di uno studioso come Freud di cui, nonostante il cattivo carattere, le innumerevoli idiosincrasie, le stesse ipocrite contraddizioni, nessuno può disconoscere la funzione dirompente e innovativa. Con Freud il pensiero europeo ha certamente “svoltato”, come si dice in gergo. Sorprende proprio che, invece di cercare di capire come sia avvenuta questa svolta decisiva, Onfray si sforzi soltanto di raccogliere, con stile letterariamente incalzante, tutte le maldicenze a torto o a ragione accumulatesi su Freud, a seguito di una indiscreta rilettura di tutta la documentazione dallo stesso Freud espunta o rimossa. Incestuoso, egocentrico, traditore di ogni umano rispetto familiare e professionale: ma non basta, Onfray non si perita di affermare che Freud era anche in ritardo negli studi, probabilmente poco intelligente, facile preda di ogni spuria fascinazione intellettuale: insomma, non solo un poco di buono, ma anche un uomo senza qualità.

    Una linea di fondo della ormai consolidata riflessione di Onfray può essere individuata nella idea che tutto – il modo di essere, il modo di amare, il modo di rappresentarsi a sé e agli altri – richieda un “lavoro” impegnativo e creativo: strano che, nel caso di Freud, questa idea dell’investimento intellettuale ed emotivo richiesto da ogni impegno di riconoscimento, non lo abbia indotto a prospettarne le contraddittorie difficolta come un percorso esemplare e comunque filosoficamente sollecitante.

    Il problema della scienza

    Nella sua requisitoria, Onfray parla spesso di scienza, ma non tanto per criticare i problematici presupposti epistemologici della psicoanalisi, quanto per denunciare le ipocrisie e le mistificazioni di Freud, che alla scienza ha sempre voluto appellarsi, come ricordava Herbert Marcuse nella sua storica biografia freudiana, riprendendo un’allora (1956) inedita polemica tra Freud e una pubblicazione berlinese (la “Berliner Illustrierte Zeitung”, del 30 aprile 1926) a proposito del fondamento scientifico del metodo psicoanalitico. D’altra parte, la scientificità di cui si può parlare a proposito della psicoanalisi, non è certamente quella delle scienze naturali, ma, se mai, quella delle scienze umane.

    Da una parte, infatti, resta acclarata la funzionalità della psicoanalisi in quanto “pratica” che si fonda su una negoziazione della relazione terapeutica basata sulla condivisione di formule narrative precostituite, così da riattualizzare una condizione pedagogicamente efficace come quella parentale (“naturale” quest’ultima, “innaturale” l’altra e quindi tale da richiedere una determinazione paradossale dei codici e dei contesti di riferimento). In questo senso, il di-scorso analitico può venire considerato come una peculiare performance narrativa concernente gli eventi della vita dell’analizzato, ai quali non è possibile un accesso diretto, in quanto esistono solo nelle versioni sviluppate dall’analizzato e dall’analista, che costituiscono al tempo stesso i soggetti del discorso e i soggetti nel discorso. Non a caso, nella situazione analitica, le versioni di molti eventi significativi cambiano e si trasformano mano a mano che il lavoro comune progredisce, trasformando ciò che viene chiamato il vissuto degli eventi, poiché racconti e vissuti sono inseparabili.

    Dall’altra parte, resta altrettanto fondamentale il ruolo che il pensiero freudiano ha svolto sul piano della ricognizione psicologica e culturale del valore del simbolo, cioè della possibilità concettuale e linguistica di attraversare creativamente i confini di una realtà tanto meno reale quanto più attraversabile e viceversa. In questa duplice pretesa, quella di sapere – come appariva strutturato il Nuovo Mondo della interiorità, a riscontro di una esteriorità storicamente e geograficamente condizionata – e quella di potere – il potere di guarire, ma anche quello di sopravvivere grazie a una prospettiva di senso in un mondo inevitabilmente senza senso – si articola la polemica di Onfray, così come emerge nella autobiografica prefazione, che traduce il sospetto nei confronti del pensiero freudiano in una personale, aspra e disperata, educazione sentimentale: come dire che, ancora una volta e contro ogni ragionevole presunzione, ciò che conta nel dividere il mondo tra affini e diversi, deriva dai sempre spinosi e irrisolti rapporti famigliari.

    Se nella psicoanalisi il sapere appare inevitabilmente datato e comunque non necessariamente originale e se il potere rappresenta il potere dell’amore, di quel sentimento che, legando profondamente due persone, consente a entrambe di affrontare la vita sentendosi meno sole, ma separatamente, cosa ha veramente detto Freud che ancora oggi, a oltre un secolo di distanza, sembra turbare giovani e vecchi, studiosi e studenti, a differenza di altre teorie filosofiche o scientifiche, assai più coerenti, ma assai meno coinvolgenti?

    Forse non basta, come vorrebbe Onfray, ipotizzare che il segreto risieda nella rappresentazione del corpo, cioè nella possibilità di farne diretta e personale esperienza. Forse il problema risiede, al contrario, nel fatto che il corpo non c’entra, o almeno c’entra come corpo improprio, come corpo estraniato ed estraniante. Onfray si mostra turbato dalla scoperta che Freud non era quello che diceva di essere e che i suoi agiografi hanno ripetutamente detto che era: «che Freud ha mentito molto, lavorato alla propria leggenda, […] che Freud ha falsificato alcuni risultati, inventato pazienti, preteso di basare le sue scoperte su casi clinici inesistenti, che ha distrutto le prove delle sue falsificazioni. […] che Freud ha organizzato il mito dell’invenzione geniale e solitaria della psicoanalisi, mentre è stato un grande lettore, un opportunista che ha attinto numerose tesi da autori oggi sconosciuti, facendo passare queste scoperte per sue». Questo turbamento non gli consente di cogliere il senso recondito di questo esistenziale “spostamento”, per usare un termine fondamentale nella teoria psicoanalitica, in cui confluiscono le tre funzioni linguistiche della condensazione, della sovradeterminazione e della allusione.

    Il corpo e il simbolo

    Chiedendosi a cosa sia dovuto un secolo di successo della psicoanalisi, nonostante che «l’epistemologia di Freud si fondi solo su affermazioni performative», Onfray risponde che «Freud ha fatto entrare per la prima volta il sesso nel pensiero occidentale dalla porta principale». Ma questa risposta andrebbe capovolta, nel senso che, richiamando l’attenzione sul corpo come principio di ogni desiderio, Freud in realtà ne suggerisce la dimensione simbolica che motiva, alimenta e finalizza il desiderio. In fondo, di corpo se ne trova tanto nella tradizione occidentale, dal corpo suppliziato e trasfigurato di Cristo al corpo verginale e materno di Maria, fino al corpo aperto e chiuso del Marchese de Sade. Tanto corpo che in realtà sta al posto di qualcos’altro, che si configura come un simbolo, anzi come il simbolo del simbolo.

    In effetti, come segnala lo stesso Onfray, nel suo duplice e parallelo percorso di elaborazione di una tecnica e di una scienza, Freud quarantenne fa una scelta che è rimasta proverbiale, nel senso che, da quando è diventata nota la sua già espunta corrispondenza con l’amico Wilhelm Fliess, la si è variamente considerata come pregiudicata o pregiudicante, ma comunque decisiva. Lo stesso Onfray la ricorda sotto il titolo eloquente “Il negatore della carne”: «Freud diagnostica un’isteria e nota alcuni disturbi erroneamente attribuiti all’onanismo represso di Emma Eckstein, paziente afflitta da emorragie nasali. Decide un’operazione al naso, con Fliess a dirigere le operazioni. Le conseguenze di questa operazione sono catastrofiche. […] Ma Freud persiste nel suo diniego del corpo e imputa questa emorragia al desiderio sessuale che la paziente avrebbe concepito nei suoi confronti».

    Come abbiamo avuto modo di rilevare in altra occasione (Le mosse del cavallo, Rubbettino) fu quella l’occasione del passaggio cruciale della eziologia psicopatologica «dal mondo aristotelico dei fatti a quello delle affezioni dell’anima, abbandonando la teoria della seduzione infantile, che ne aveva a lungo costituito lo scandaloso cavallo di battaglia, a favore di una genesi che potremmo definire simbolica». A cavallo tra Ottocento e Novecento, e forse proprio per la fuga dalla realtà tanto deprecata da Onfray, nasce in Freud l’idea che la realtà e il simbolo sono la stessa cosa, che non bisogna perseguire un rapporto referenziale, nella misura in cui il significante e il significato sono, sia pure alternativamente, la stessa cosa. Non a caso, uno dei maggiori studiosi contemporanei del simbolo, il bulgaro francese Tzvetan Todorov ha segnalato come, proprio negli stessi anni, il maggiore dei linguisti allora viventi, Ferdinand de Saussure, incapace di cogliere la “verità” della relazione simbolica, preferì in un caso di glossolalia ricorrere a una interpretazione “soprannaturale” (che, nel nostro contesto, suona come “naturale”, la “logica del verosimile referenziale”), cadendo in una crisi di comunicazione che lo oppresse sino alla morte.

    Nonostante le innegabili contraddizioni e persino le perversioni caratteriali che Onfray gli imputa, per quanto «l’apporto di Freud non sempre corrisponda a ciò che credeva Freud stesso o pensavano i suoi discepoli» (Todorov), non si può in conclusione negare a Freud di avere dato inizio a quel percorso infinito del senso che, anche quando si è ideologicamente bloccato sul “capitale” marxiano o sul “sesso” freudiano, resta comunque aperto a nuove avventure, o – Freud insegna – a nuovi, imprevedibili e sconcertanti spostamenti.

    Altrimenti, si rischia che il simbolo ci si rivolti contro, trasformandosi in una sorta di percorso obbligato, di coazione a ripetere, in cui prendono corpo i deliri pseudoscientifici contemporanei, come quelli della cosiddetta “noetica”, noiosamente decantata dal cinico poligrafo Dan Brown.

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