«La comunicazione è l’essenza della scienza», scriveva nel 1979 William D. Garvey, sintetizzando in poche parole un risultato fondamentale della sociologia delle scienze. In effetti, a partire dalle comunicazioni informali che accompagnano l’inizio di ogni ricerca, passando per i seminari e i congressi – dove la comunicazione, dapprima orale, si fa poi scritta nella redazione degli atti – fino al riconoscimento ufficiale del lavoro svolto, costituito dalla sua accettazione da parte del comitato editoriale di una rivista specializzata, con conseguente pubblicazione, l’intero processo di costruzione della scienza è puntualmente costellato di atti comunicativi.
di Angelo Gallippi
La nascita stessa della rivista scientifica – avvenuta nel 1665 in Francia con il «Journal des Sçavans», seguito pochi anni dopo dalle «Philosophical Transactions» della Royal Society di Londra – faceva seguito a un lungo periodo di scambi informali di lettere fra i ricercatori, del quale l’esempio forse più famoso è costituito dalla corrispondenza mantenuta dal padre Marin Mersenne con 210 saggi europei. Il nuovo medium permetteva finalmente di risolvere i problemi di rapidità di diffusione delle conoscenze, di imparzialità, di priorità e di più grande visibilità dei lavori di ricerca. In effetti, nel corso dei tre secoli successivi, il numero delle riviste scientifiche si è moltiplicato seguendo una crescita esponenziale che ricorda la legge di Moore nell’elettronica, con un periodo di raddoppio, in questo caso, di 10-15 anni (anche se, delle diverse decine di migliaia di riviste oggi in circolazione, solo 4 mila hanno un impatto importante).
Ora, la pubblicazione di un articolo su una rivista scientifica è a sua volta l’inizio di un secondo processo comunicativo, assai più articolato del primo, che si rivolge al più vasto pubblico dei non specialisti utilizzando banche dati, basi bibliografiche, siti Web, indicizzazioni su motori di ricerca, comunicati di agenzie di stampa, libri e trasmissioni radiotelevisive. è la cosiddetta «divulgazione scientifica», svolta talvolta dagli stessi protagonisti del processo di costruzione della scienza (come nel caso della celebre rivista «Scientific American»), ma più spesso da attori diversi: nel migliore dei casi specialisti nella comunicazione, nella maggioranza comunicatori improvvisati o divulgatori tuttologi. Con il risultato che, come osserva Vittorino Andreoli (si veda No alla scienza spettacolo a pag. 72), spesso si spaccia per comunicazione scientifica quella che è invece comunicazione giornalistica, magari anche ben confezionata ma, appunto, cosa diversa dalla prima.
Sorgono allora spontanee alcune domande: come andrebbero comunicate la scienza e la tecnologia? Chi dovrebbe addestrare i futuri comunicatori? Cosa andrebbe insegnato e come? Sono domande, soprattutto le ultime due, che ricevono risposte sempre più numerose , e come è prevedibile anche abbastanza diverse , da parte delle principali istituzioni accademiche in Italia e all’estero. Come già nel 1999 aveva osservato Labasse in un rapporto alla Commissione Europea sulla comunicazione della conoscenza scientifica (1), i programmi offrono un insegnamento frammentato, con scarsa integrazione fra teoria e pratica, a causa della scarsità di conoscenze specifiche in materia. Naturalmente interrogativi più o meno simili se li pongono anche programmisti radiotelevisivi, capiredattori di giornali e riviste, direttori di collane editoriali, progettisti di corsi audiovisivo-multimediali e di siti Web, fornendo ovviamente risposte ancora diverse da quelle del primo gruppo.
Galassia comunicativa
Se restringiamo il campo d’indagine a quanto si fa in atenei e scuole di specializzazione post-universitaria in Italia e all’estero notiamo che, accanto ai corsi tradizionalmente finalizzati a quella particolare forma di comunicazione che è la didattica delle varie scienze, sono sorti nell’ultimo decennio numerosi corsi di comunicazione scientifica e tecnologica.
è una galassia caratterizzata da una estrema varietà di strutture, programmi e diplomi, che rende difficile se non impossibile il confronto e la valutazione, anche perché esistono forse tante definizioni di «comunicazione scientifica» quanti sono i gruppi che vi si dedicano.
Questa varietà, originata dalla natura essenzialmente multi- o inter-disciplinare dell’argomento, inizia nella pluralità degli «enti erogatori» dei corsi. Questi comprendono le principali facoltà o dipartimenti universitari, tra i quali Scienze della comunicazione, Matematica, Fisica, Economia, Giurisprudenza, Lettere e Filosofia, Sociologia, Medicina e Chirurgia, Farmacia nonché università a distanza, centri di formazione e organizzatori vari di corsi online.
Diversificato è anche il livello al quale viene impartito l’insegnamento: singolo esame (a sua volta obbligatorio o facoltativo), indirizzo all’interno di un corso di laurea, corso di laurea oppure master di specializzazione. Variano di conseguenza i requisiti di ammissione, che vanno dalla iscrizione a determinate facoltà, al possesso di una laurea qualsiasi oppure specifica, fino al superamento di un test/colloquio di ingresso.
Vi sono poi altri elementi che vanno valutati con attenzione per individuare il corso più adatto alle proprie esigenze. La «durata» può andare dal trimestre (nel caso di un esame) al biennio (master), con conseguente variabilità del numero di ore di insegnamento/attività (da 40 a 1.500) e dei crediti formativi (da 5 a 78).
Il «costo» oscilla in Italia dalla gratuità (grazie a contributi di organismi nazionali o internazionali, tra i quali il Fondo Sociale Europeo) a 1.600 euro annui, che arrivano a 22.830 dollari per seguire il Program in Science Journalism della Università di Boston. Ma sono disponibili anche borse di studio, che per gli ammessi al Knight Science Journalism Fellowship del MIT di Boston arrivano a 35.000 dollari.
La «valutazione» finale si basa in alcuni casi su un esame più o meno tradizionale, in altri sui lavori svolti dagli studenti nel periodo di frequenza; la maggior parte dei corsi prevede anche un periodo di stage obbligatorio presso redazioni giornalistiche, case editrici, musei, uffici stampa, aziende e istituti di ricerca nazionali e internazionali. Assai variegate anche le finalità, le metodologie e i contenuti didattici, mentre i docenti provengono in prevalenza dalle università, ma anche da istituti di ricerca e centri di formazione per la diffusione della cultura scientifica.
In Italia
Nel nostro paese la comunicazione scientifica e tecnologica viene insegnata presso le principali università: di Roma (La Sapienza), Milano (Statale, Cattolica, Bocconi), Napoli (Federico II), Torino, Ferrara, Trento, Cassino, dell’Insubria, presso i Politecnici di Milano e Torino e il SISSA-ISAS di Trieste.
Numerose le denominazioni dei corsi: se quelle più ricorrenti sono Comunicazione scientifica e Comunicazione della scienza, si trovano anche Giornalismo e Comunicazione scientifica, Giornalismo e comunicazione scientifica e istituzionale, Comunicazione digitale e scientifica, Editoria multimediale e Comunicazione digitale, Comunicazione e Divulgazione scientifica, e perfino Cultura biomedica e Comunicazione al cittadino.
Per quanto riguarda i contenuti, si va dai corsi generali a quelli estremamente specifici, come quello di perfezionamento sulla Comunicazione scientifica dell’Università di Trento, finalizzato alla «comprensione dei fenomeni collegati alle lamine di sapone e alla tensione superficiale», o quello sulla Comunicazione socio-sanitaria della Statale di Milano.
Sull’esempio di piani di studio diffusi all’estero, alcune università (La Sapienza di Roma, Statale di Milano, Insubria di Varese) dedicano particolare attenzione alla ricerca di informazioni scientifiche e alla speculare produzione di documenti da pubblicare su Internet, in considerazione della crescente influenza che lo sviluppo della Rete esercita sul complesso sistema della comunicazione scientifica – ovviamente a livelli differenti a seconda delle discipline – attraverso la moltiplicazione delle comunicazioni informali. Queste sono consistite dapprima nella semplice messaggistica, poi anche nella condivisione dei dati, la messa in comune di strumenti e misure in diversi domini, fino al concetto di collaboratory, introdotto dalla National Science Foundation, e alle più complesse applicazioni di grid computing in biologia molecolare e astrofisica.
In alcuni casi (Università di Cassino, Università e Politecnico di Torino, Statale di Milano) trova spazio negli insegnamenti l’etica della comunicazione, attraverso la verifica e la qualità dell’informazione fornita, soprattutto in ambito biomedico e della tutela della salute. Si tratta di un tema che, a partire dall’osservazione formulata da Robert Boyle nel 1655 (2), secondo cui vi è «una responsabilità religiosa di comunicare la conoscenza medica in maniera chiara, specialmente a chi non sia in grado di padroneggiarla, piuttosto che riservarla alla élite medica», ha prodotto nel corso dei secoli una approfondita riflessione, approdata al concetto moderno del diritto alle scelte autonome sulla propria salute.
In Europa
In Europa c’è una consapevolezza diffusa, anche a livello comunitario, dell’importanza di comunicare in modo efficace la scienza e la tecnologia. Negli atti di un simposio del 1996 della Organizzazione di Cooperazione e di Sviluppo Economici (OCSE) c’è scritto: «Si deve riconoscere che molti scienziati e ingegneri non sono particolarmente abili nelle attività di comunicazione pubblica. è perciò necessario rendere disponibile una formazione adeguata per mettere in grado scienziati e ingegneri di partecipare in modo efficace all’incremento della consapevolezza pubblica».
L’appello ha ricevuto diverse risposte, tra le quali il progetto European Network of Science Communication Teachers (ENSCOT), finanziato dal marzo 2000 al luglio 2003 dalla Commissione Europea nell’ambito del 5° Programma Quadro «Programma per fare crescere la consapevolezza pubblica della scienza e della tecnologia». Il progetto, diretto dal professore Steven Miller dell’University College di Londra, ha coinvolto le principali istituzioni e personalità impegnate nell’insegnamento della disciplina nel Vecchio Continente, con il fine di scambiarsi idee sulle modalità di insegnamento più efficaci, sviluppare una prospettiva europea per i corsi e agire da punto di riferimento per gli altri docenti di questa materia operanti nell’Unione Europea. Terminata con successo la fase pilota, è attualmente allo studio della Commissione la proposta di una rete estesa, denominata ENSCORT, costituita da oltre venti paesi, nell’ambito del 6° Programma Quadro.
Nel Regno Unito, secondo il Wellcome Trust’s Science Communication Directory, sono attualmente attivi una ventina di corsi. Essi si possono dividere (come anche quelli di altri paesi) in tre categorie, già delineate nel 1994 da Jon Turney (3): communication skills courses, per i ricercatori che vogliano migliorare la propria comunicazione verso una platea non tecnica; skills with added theory, centrata sulle relazioni tra la scienza e i suoi pubblici; big picture, che comprende elementi tecnici integrati in un programma più vasto, relativo a diverse discipline delle scienze sociali.
Appartiene al primo gruppo quello che è stato probabilmente il primo corso in Science Communications del mondo, organizzato nel 1991 presso l’Imperial College di Londra dallo Science Communication Group. Si basa su discussioni e presentazioni di gruppo, esercizi di simulazione, role-playing, relazioni di esterni e dibattiti formali, e si conclude con una dissertazione di 10 mila parole. A un decennio di distanza, nel 2001, il Gruppo ha lanciato un nuovo tipo di corso, in Science Media Production, esplicitamente indirizzato a quanti svilupperanno la propria carriera «nella cinematografia, televisione o radio». Entrambi hanno un taglio insieme teorico e pratico.
Anche in Francia la medesima denominazione «comunicazione scientifica» comprende una nebulosa di insegnamenti diversi, che vanno da corsi di scrittura di base a insegnamenti teorici di epistemologia e di sociologia applicate all’informazione scientifica.
Un elenco anche sommario non può trascurare il corso terziario delle Ecoles Doctorales EMMA e RP2E Comunicazione scientifica, scritta e orale, in lingua inglese, che si tiene a Metz e Nancy. Il programma è incentrato sulla pubblicazione di nuovi risultati scientifici, descrivendo in dettaglio come costruire un articolo, come selezionare la rivista e quale procedura seguire fino alla pubblicazione dell’articolo. Dà anche rilievo alla partecipazione a conferenze internazionali, considerata la sua importanza nell’attività scientifica, ed enfatizza il contatto personale nello stabilire e mantenere collaborazioni internazionali. Il materiale didattico di ciascuna lezione è messo a disposizione degli studenti su un sito Web.
Particolarmente orientato a Internet è invece il corso di Informazione scientifica e tecnica che si tiene presso l’Università François Rabelais di Tours per gli studenti del Master in Biologia. Vi si insegna come ottimizzare l’utilizzo dei periodici elettronici e la ricerca di informazioni nelle basi dati bibliografiche, come usare i motori di ricerca sul Web e comunicare i risultati dei propri lavori scientifici, a voce e per via telematica.
Nel settore invece dell’offerta formativa rivolta ai giornalisti, da segnalare la filiera di attività formative denominata «giornalista e scienziato» attivata dalla Ecole Superieure de Journalisme di Lilla a partire dal 1993.
Altre istituzioni attive in materia sono l’Istituto nazionale di ricerche in informatica e automatica (INRIA) – la cui équipe multimediale progetta e realizza CD-Rom, fotografie, film e siti Web e organizza mostre di contenuto scientifico – il Ministero della Cultura e della Comunicazione e il Centro per la Comunicazione scientifica diretta (CCSD) del Centro nazionale della ricerca scientifica (CNRS).
Infine, vi sono paesi che hanno attivato programmi di formazione per giornalisti scientifici – quali la Germania (con l’Arbeitsbereich Wissenschaftsjournalismus della Libera Università di Berlino, dal 1995) e la Svezia (con il Programmet för Vetenskapsjournalistik della Università Ume�, dal 1995) – e paesi che privilegiano una formazione scientifica più globale, quali la Spagna (con il Màster en Comunicació Cientifica della Università Pompeu Fabra di Barcelona, dal 1994).
Negli Stati Uniti
Anche negli Stati Uniti la necessità che gli scienziati migliorino i propri stili di comunicazione al vasto pubblico è avvertita in modo distinto, fino ai massimi livelli dell’amministrazione. In un rapporto al Congresso del 1998 «si richiede che ogni scienziato di una certa rilevanza segua un corso di comunicazione della scienza» e si osserva che «le università dovrebbero prendere in considerazione l’idea di offrire agli scienziati, come parte della loro formazione universitaria, l’opportunità di seguire almeno un corso di giornalismo o di comunicazione». Da parte sua, la National Association of Science Writers svolge da decenni un’attiva opera di sensibilizzazione e formazione, anche in Rete, sui vari aspetti della comunicazione scientifica scritta, rivolgendosi in particolare a scienziati, ingegneri e fisici, nonché agli organizzatori di congressi, conferenze e simposi.
In effetti gli USA sono probabilmente il paese con la maggiore varietà di corsi di comunicazione scientifica: in un altro rapporto sempre del 1998 (4) ne venivano censiti una quarantina, gestiti da quasi tutte le principali università, oltre a quelli on line.
Tra questi ultimi, i più autorevoli sono quelli dell’Illinois Institute of Technology (che fino dalla sua fondazione, nel 1890, prevedeva programmi di comunicazione tecnica), del Rochester Institute of Technology e della Professional Communication Society, branca della famosa IEEE. Questa ha di recente reso disponibili in linea, a pagamento, i seminari sulle tecniche di scrittura e sull’uso efficace dell’e-mail che ha organizzato nel corso di oltre trent’anni per società commerciali e organizzazioni varie. Ogni corso comprende strumenti di auto-valutazione, che svincolano i partecipanti dai ritmi temporali di un istruttore, ma è disponibile anche un consulente in carne e ossa per la correzione degli elaborati. Facoltativamente si può sostenere un esame finale, che rilascia un attestato di partecipazione.
Ovviamente diversificate le tipologie dei corsi tradizionali: si va dal Program in Science Journalism del College of Communication dell’Università di Boston, rivolto a un pubblico giovane, fornito di competenze professionali e comunicative ma non di conoscenze scientifiche, al Knight Science Journalism Fellowship del MIT, dove i ricercatori dell’Istituto aggiornano nell’arco di nove mesi giornalisti scientifici già affermati su temi quali scienza, tecnologia, medicina o ambiente. Sempre al MIT, il Dipartimento di biologia organizza corsi di Scientific communication e Biology & communication, focalizzati sulla scrittura di relazioni scientifiche, in base alla considerazione che, se il fine della scienza è di contribuire alla nostra comprensione del mondo naturale, il fine della scrittura scientifica è di comunicare tale comprensione con precisione, accuratezza ed economia. Tra il materiale didattico usato, un posto di rilievo spetta agli articoli pubblicati dalle principali riviste del settore.
Variabile ovviamente la durata, che va dai due anni del Master of Technical and Scientific Communication delle Università dell’Ohio e di Miami (quest’ultimo con nove insegnamenti), ai tre mesi scarsi dei corsi in Scientific Communications gestiti dalla Scuola di salute pubblica Johns Hopkins Bloomberg di Baltimora (gratuito) e dalla Western Washington University. Questo è abbastanza settoriale, in quanto prepara gli studenti a presentare le loro ricerche in congressi scientifici regionali e nazionali, e presenta la particolarità di includere nei suoi insegnamenti – accanto alle due forme più tradizionali della comunicazione scientifica, la scritta e l’orale – anche quella basata su poster. Caratteristica condivisa dal corso omonimo dell’Università di Saint Louis nel Missouri il quale, a conferma del suo taglio pratico, richiede agli studenti la conoscenza dei programmi Microsoft Word e Power Point.
C’è da dire infine che, a differenza dei loro colleghi europei, i docenti americani sono molto più prolifici e dotati di senso pratico, dato che la maggioranza di essi ha trasformato gli appunti delle lezioni in volumi, talora di successo, destinati a un pubblico assai più ampio di quello dei soli studenti universitari. Accanto alle numerose iniziative di singoli (si veda I magnifici venticinque a pag. 75) va segnalato il volume collettaneo Communicating Science News: A Guide for Public Information Officers, Scientists and Physicians edito dalla National Association of Science Writers. Si rivolge esplicitamente a scienziati, ingegneri, fisici e organizzatori di convegni, congressi e simposi, per aiutarli a comunicare più efficacemente con i rispettivi pubblici.
Nel resto del mondo
Il paese che vanta una delle tradizioni più antiche dell’insegnamento della comunicazione scientifica è il Brasile, dove questa disciplina è stata insegnata fino dal 1970, quando i dibattiti in seno alle comunità universitaria, scientifica e giornalistica nazionali sulla copertura della scienza da parte dei media sono cresciuti di numero e qualità. Tuttavia la disciplina non ha trovato ancora una collocazione accademica ben definita, il che ha determinato la scarsa offerta di corsi sull’argomento.
Le esperienze forse più significative sono quelle avviate dall’Università metodista di Sóo Paulo (UMESP) nel 1978 e dall’Università di Campinas (UNICAMP) dal 1999. La prima, che dal 1996 conferisce un dottorato, mira a formare ricercatori e insegnanti, e per il suo successo l’UMESP è diventato il coordinatore per l’America Latina del COMSALUD, un progetto internazionale di ricerca finanziato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e dall’Organizzazione Panamericana della Sanità per la comunicazione sui media della medicina e della salute. La seconda presenta la particolarità di rivolgersi contemporaneamente a ricercatori e giornalisti, che vengono fatti lavorare insieme con il fine di approfondire la loro percezione dei diversi saperi di ciascuna professione. L’esperienza è probabilmente unica nel suo genere, e i suoi risultati meritevoli di attenta valutazione.
Abbastanza atipica è anche l’attività di comunicazione scientifica che si è svolta in India nell’ultimo quarto di secolo, legata quasi esclusivamente a un medium, la radio, e a un nome, il fisico dell’Università di Calcutta Amit Chakraborthy, specialista in psicologia applicata. Questi ha mandato in onda, dal 1977 al 1989, regolari programmi di divulgazione scientifica basati su domande degli ascoltatori, i quali hanno potuto interrogare anche il premio Nobel Amartya Sen, poco dopo la sua prolusione all’Accademia delle Scienze. Quando poi, a metà degli anni 1990, è stata introdotta nel paese la modulazione di frequenza, la disseminazione di informazioni scientifiche è divenuta più capillare, aumentando la sua efficacia nel contrastare la superstizione e il fondamentalismo.
La successiva diffusione della telefonia cellulare ha permesso di coinvolgere nelle trasmissioni anche la gente comune, intervistata direttamente nella strada. Chakraborthy, che ha ottenuto di recente il premio nazionale per la volgarizzazione della scienza attraverso i media, è autore dell’unico libro sul giornalismo scientifico esistente in India, Science & the Media, e di altri 15 libri di divulgazione. A lui si deve anche l’organizzazione di 14 corsi di formazione in Giornalismo scientifico e Pratica sui media presso la Jadavpur University di Calcutta; i corsi durano 12-16 settimane e sono stati frequentati da circa 400 studenti.
In Australia i due corsi più importanti sono tenuti presso la Australian National University e la University of Western Australia. Il primo è un master destinato ai laureati in materie scientifiche, viene erogato in modalità annuale (a tempo pieno) o biennale (a tempo parziale) ed è uno dei più costosi in assoluto: 7.920 dollari per gli australiani e 17.088 dollari per gli stranieri. Il secondo, denominato Scientific Communication Course, è particolarmente finalizzato a insegnare la scrittura di argomenti matematici, essendo gestito dalla Scuola di Matematica e Statistica dell’università. Vi si insegnano argomenti abbastanza specialistici (come i fondamenti del programma di impaginazione LaTeX) e altri più popolari (come la conduzione di un dibattito e la costruzione di una pagina Web).
Corsi di comunicazione scientifica si possono seguire ovviamente in Canada, patria del maggiore mass-mediologo del XX secolo, Marshall McLuhan. Quello gestito dal Polo universitario di Sherbroke insegna a redigere e presentare una comunicazione scientifica sotto forma di manifesto o di relazione orale, da presentare tipicamente in occasione di un congresso e avente per oggetto le competenze acquisite dagli studenti durante il corso di studio. Focalizzato invece sulla comunicazione tanto orale quanto scritta, delle quali evidenzia similitudini e differenze, è il corso in Communication scientifique et technique della Ecole Polytechnique di Montréal. Dura 15 settimane e prevede due sessioni specifiche dedicate alla scrittura matematica e alla valutazione da parte dei colleghi.
Angelo Gallippi è docente di comunicazione scientifica e tecnologica all’Università di Roma La Sapienza.
(1) Labasse, B., 1999, La médiation des connaissances scientifiques et techniques, Rapport à la Direction Générale XII de la Commission Européenne. Paris: Commission Européenne.
(2) In Communication of Secrets and Receipts in Physick.
(3) Turney, Jon. 1994, «Teaching science communication: courses, curricula, theory and practice», Public Understanding of Science, vol.3.
(4) Dunwoody, S. et al., 1998, Directory of Science Communication Programs & Courses in the United States. Madison: University of Wisconsin.