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Nicholas Carr, che ha contestato i vantaggi competitivi della tecnologia informatica, valuta le implicazioni dello sfruttamento delle risorse offerte dalle reti di computer.

di Mark Williams

Alla fine, come accade nella fiaba dei vestiti nuovi dell’imperatore, qualcuno ha rotto l’incantesimo. Nel maggio del 2003, Nicholas Carr si calò nello scomodo ruolo di chi va controcorrente, pubblicando un articolo intitolato IT Doesn’t Matter su “Harvard Business Review”. Nel 2004 continuò nella sua polemica con il libro Does IT Matter? Information Technology and the Corrosion of Competitive Advantage. Inevitabilmente, le sue argomentazioni suscitarono le ire dei personaggi più importanti di Silicon Valley e Redmond, a Washington.

Tutto ciò gli garantì una discreta fama. Ora ha scritto un nuovo libro, The Big Switch: Rewiring the World, from Edison to Google, che influenzerà sicuramente un grande pubblico. Carr sostiene in modo persuasivo che stiamo passando dall’era del personal computer a quella dell’utility computing, con cui egli intende l’espansione del grid computing, vale a dire le ricerche nel campo delle architetture di calcolo parallelo, e la distribuzione delle operazioni di calcolo e memorizzazione su Internet, fino al punto di influire su gran parte di ciò che l’uomo fa digitalmente. Carr dispiega abilmente le sue analogie storiche, descrivendo dettagliatamente come l’elettricità distribuita sulla rete abbia rimpiazzato le diverse fonti energetiche usate per gran parte del XIX secolo. Molti lettori potrebbero trovare le sue conclusioni incomprensibilmente cupe. Credo che Carr abbia avuto in mente il vecchio detto: prevedere è difficile, specialmente il futuro. A parte ciò, ritengo anche che l’autore sia nel giusto a indicare che più o meno nel prossimo decennio molte cose che riteniamo permanenti scompariranno.

Dato che le argomentazioni di Carr sono oggetto di controversie, può essere d’aiuto esaminarle accuratamente. In IT Doesn’t Matter egli sosteneva che, quando le industrie diventano mature, i prodotti o servizi che forniscono diventano beni in concorrenza solo sul prezzo. L’industria informatica, continuava Carr, è arrivata a questo stadio: per gran parte delle aziende che non hanno sviluppato e venduto IT, la tecnologia dell’informazione non ha offerto alcun vantaggio competitivo e ha rappresentato solo un ulteriore costo commerciale. Non era particolarmente difficile trovare riscontri oggettivi alle tesi di Carr. Un truismo delle scuole di formazione manageriale da quando è uscito nel 1997 il libro di Clayton Christensen, The Innovator’s Dilemma: When New Technologies Cause Great Firms to Fail, è che un settore è stato mercificato quando la concorrenza ha creato un “eccesso di offerta di prestazione”, in cui è indesiderata pressochè ogni differenziazione di prodotto. In effetti, da poco prima della fine del XX secolo, la grande maggioranza dei PC possedeva molte più capacità di elaborazione e memorizzazione di quante fossero necessarie all’utente per svolgere i compiti più normali: e-mail, navigazione Web, elaborazione di testi. Come sottolineava Carr, il 70 per cento della capacità di memorizzazione di una normale rete Windows rimaneva inutilizzata.

Agli inizi del Duemila, sosteneva Carr, circa il 50 per cento delle spese di capitale annuali era destinato all’IT: ogni anno, le aziende statunitensi acquistavano più di 100 milioni di nuovi PC. Il rischio commerciale più grande associato all’IT che le aziende si sono trovate a fronteggiare, conclude Carr, è stato l’eccesso di spesa. Era giunto il momento per le aziende di “esplorare soluzioni più economiche, incluse le applicazioni open source e le reti di PC ridotti all’essenziale”, egli spiegava. “Se un’azienda vuole una prova di quanto denaro potrebbe risparmiare, basta dare un’occhiata ai margini di profitto di Microsoft”.

Naturalmente, i dirigenti industriali non presero sul serio questi argomenti. L’amministratore delegato di Microsoft, Steve Ballmer, sostenne: “La nostra risposta è una sola: sciocchezze”. Anche Bob Metcalfe, uno degli inventori di Ethernet, che avrebbe dovuto mantenere un distacco olimpico, intervenne sulla nostra rivista per lamentarsi che “l’articolo di Carr non fosse stato subito demistificato” (si veda Why IT Matters, June 2004). A riprova della erroneità di Carr, Metcalfe citava l’espansione di Ethernet in sistemi di reti sempre più nuovi, estesi e veloci, fraintendendo probabilmente la posizione di Carr (Metcalfe fa parte del consiglio d’amministrazione di “Technology Review”, edizione americana).

Carr sosteneva che l’IT, come precedenti tecnologie quali il telefono e l’elettricità, non avrebbe più conferito alcun vantaggio competitivo perché faceva ormai parte dell’infrastruttura commerciale globale. Inoltre, l’IT sarebbe diventata una semplice utility, per assistere gli utenti su quelle stesse reti che Metcalfe aveva contribuito a creare. Oggi la tesi di Carr è unanimemente condivisa: quasi tutti concordano che i servizi IT saranno distribuiti sotto forma di quota di sottoscrizione, come di norma per una utility. è questa la ragione, si fa notare in The Big Switch, per cui Google ha deciso di allestire una serie di server giganteschi nelle aree rurali dell’Oregon, delle due Caroline, dell’Oklahoma, della Georgia e dello Iowa. In altre località, centri dati dello stesso tipo sono stati organizzati o sono in allestimento da parte di Microsoft, IBM, Hewlett-Packard, Yahoo, Ask.com e Salesforce.com.

Finora è stata Amazon, il gigante del retail, a offrire i servizi di utilità computing più completi. L’azienda ha già presentato il suo EC2 (acronimo di Elastic Compute Cloud, che permette agli utenti di far girare il software su sistemi Amazon) e S3 (Simple Storage Service, grazie al quale gli utenti possono con una semplice interfaccia memorizzare dati pagando solo qualche centesimo a gigabyte) e di recente ha lanciato SimpleDB, un database che permette l’effettuazioni di interrogazioni su dei dati strutturati.

Chiesi a Werner Vogels, responsabile della divisione tecnologica di Amazon, se eravamo realmente nell’epoca delle aziende Internet prive di server che sono attive attraverso un semplice browser. Vogels rispose che a suo parere si trattava di un dato ormai consolidato, visto quante startup preferivano pagare qualche centesimo a gigabyte a Amazon invece di investire in hardware dal costo di centinaia di migliaia di dollari.

In The Big Switch, Carr sottolinea i potenziali vantaggi di un mondo di utility computing, con la possibilità di accedere a risorse di calcolo nello stesso modo in cui si accede a risorse pubbliche come l’energia elettrica o l’acqua, appoggiandosi all’infrastruttura di erogazione del servizio offerto da un fornitore, ma gioca ancora una volta il ruolo di chi è fuori dal coro. Quasi metà del libro descrive i possibili sviluppi distorti di un simile mondo. Quali sono questi rischi, dal suo punto di vista?

In primo luogo, la distruzione delle aziende tradizionali da parte di imprese estremamente “povere”, un processo che l’utility computing rende possibile. In secondo luogo, la facilità con cui governi e aziende saranno in grado di controllare e sfruttare il nostro comportamento digitale. In terzo luogo, l’emergere di una “economia sul modello di YouTube”, in cui molti forniscono informazioni gratuite alla “nuvola” e pochi aggregatori raccolgono gran parte dei profitti. In quarto luogo, il deterioramento della cultura umana legato al fatto che le persone si affidano a Internet per qualsiasi tipo di conoscenza e iniziativa, tralasciando di fare esperienze dirette sia personali sia con gli altri. Infine, la sempre più accentuata divisione della società civile in quanto le persone scelgono di leggere o ascoltare solo le informazioni che confermano i loro pregiudizi.

Le previsioni di Carr variano in plausibilità. In ogni caso possono essere suddivise in due categorie generali: da una parte, gli scenari futuristici che potranno o meno diventare reali; dall’altra, gli scenari che si traducono in quello che il grande economista politico Peter Drucker ha definito “il futuro che è già stato”. Drucker, che è deceduto nel 2005, sosteneva sempre che, mentre la previsione del futuro era un’operazione inutile, era invece possibile riconoscere le tendenze in atto che avrebbero avuto in futuro conseguenze significative.

Drucker ha così descritto il suo modus operandi: “Mi guardo intorno per vedere cosa sta succedendo e mi rendo conto che alcune cose che vedo si sono già verificate in passato senza che le persone gli abbiano prestato la dovuta attenzione”. Questa metodologia portò Drucker alla conclusione che l’Economia della Conoscenza stava subentrando a quella Industriale, con l’inevitabile avvento del lavoratore della conoscenza, una espressione che Drucker usò per primo. Quando scrisse IT Doesn’t Matter, Nicholas Carr stava utilizzando lo stesso modo di procedere di Drucker, guardandosi intorno e identificando un futuro che era già stato.

Nel suo ultimo libro Carr ha, analogamente a Drucker, effettuato una serie di estrapolazioni dalle tendenze in atto. Dalle piccole aziende a quelle di medie dimensioni, non pochi dirigente stanno pensando: “Potremmo ridurre il dipartimento di IT a una o due persone”. In realtà, l’IT è un centro di costi, non molto differente dai servizi di mensa e di portineria, che in gran parte sono stati dati in appalto da lungo tempo. Le preoccupazioni per la sicurezza non impediranno necessariamente alle aziende di esternalizzare in toto i servizi dati; le aziende già da molto tempo affidano la gestione delle buste paga e i dati dei clienti a provider di fiducia. Sarà ovviamente determinante la volontà della singola azienda, ma appare improbabile che le imprese più piccole resistano alla logica economica dell’utility computing. Le aziende maggiori avranno solo bisogno di più tempo per fare lo stesso passaggio.

Anche se una parte dei dirigenti di IT potrà riqualificarsi e svolgere un ruolo nei nuovi centri dati, si perderanno più posti di lavoro di quanti ne verranno creati. Per esempio, alcuni studi accurati parlano di soli 200 dipendenti per il data center più importante di Google, in Oregon. Comunque i manager di IT con vocazione imprenditoriale potrebbero legarsi al carro delle startup che producono tecnologie innovative. Ma le opportunità saranno limitate: gran parte degli aspiranti imprenditori fallirà. è quasi inevitabile arrivare alla conclusione che molti manager di IT – la categoria emblematica dei lavoratori della conoscenza, a lungo ritenuti immuni dalle turbolenze economiche indotte dal progresso tecnologico che hanno portato alla distruzione di tanti posti di lavoro – perderanno probabilmente le loro fonti di reddito.