La lettura accomodante, se non euforica, che i media studies hanno dato dell’impatto della comunicazione, è sottoposta a una nuova discussione, sotto la spinta del disagio dei soggetti rispetto al tempo in cui vivono, ma anche della auspicabile autocritica di ricercatori e studiosi.
di Mario Morcellini
Prodigandosi come “protesi” rispetto alle strategie di conoscenza del mondo e quindi attivando una vera e propria supplenza di quei regolatori dei rapporti e delle interazioni che sono le agenzie di socializzazione, la comunicazione ha attivamente collaborato alla diffusione di un’ignoranza pubblica che è certamente uno degli ingredienti fondamentali, se non la matrice profonda, del populismo. Questo concetto, riduttivamente rubricato a caratteristica e risorsa della politica, sembra rafforzarsi a partire dalla percezione dell’inutilità della cultura e della legittimità di una socializzazione sbrigativa e on demand. Si tratta di nodi intellettuali particolarmente rilevanti: se la comunicazione ha indubbiamente funzionato per un certo periodo come “integratore di socializzazione”, con il crescente esautoramento delle istituzioni di formazione degli individui e dei cittadini, questo ruolo si è progressivamente deformato, ponendosi alternativamente come supplenza o come vera a propria sostituzione di scenario, senza escludere che in alcune situazioni si sia trasformato in vera e propria deviazione dall’addestramento al sociale.
La possibilità di continuare a riconoscere funzioni costruttive della “media-socializzazione”, basate su processi di autoriflessività, permane; ma l’improvvisa e devastante crisi della formazione sembra tradursi, non da oggi, in esaurimento di quella moneta di scambio che con formula singolarmente efficace i sociologi chiamano “capitale sociale”. I media mainstream non hanno automaticamente cooperato all’avanzamento culturale delle audience, tradendo il ruolo di guide alla modernità a cui si erano prepotentemente candidati dalla fine degli anni Ottanta. Al contrario, ponendo al centro del loro messaggio una specie di doping delle attese dei soggetti, hanno creato aspettative destinate a gratificazioni sempre spostate al futuro, contribuendo forse ad ampliare delusione e disillusione.
Non si può sottovalutare il ruolo che la televisione, per esempio, può aver giocato nell’incontrastata vittoria di culture ipersemplificate; l’idea che il “diario minimo” di una persona, le coordinate essenziali per interpretare la modernità, coincidano con i contenuti della comunicazione (soprattutto televisiva) non è certo estranea a un contesto in cui la cultura si fa opinione e la ricerca sociologica rischia di confondersi con il sondaggio. D’altronde, le promesse altrettanto euforiche della (e sulla) Rete si sono scontrate con l’avverarsi di una serie di profezie che la sociologia aveva formulato, ma omesso poi di ricordare al momento opportuno: l’annullamento del conflitto e della tensione derivante dall’accesso potenzialmente universale ha generato nuove barriere all’inclusione sociale; la moltiplicazione delle relazioni ha rischiato di svuotare le relazioni.
Il nostro Mediaevo, tra “cumulatività” e “retorica”
È necessario, allora, che gli intellettuali riconducano a un giudizio più critico, più argomentato e fondato su dati empirici l’idea – altrimenti scontata – della funzione sociale della comunicazione, sia dal punto di vista delle retoriche della conoscenza, sia da quello etico, per non parlare del campo della politica e delle arene pubbliche. Una conseguenza evidente di questo rinnovamento di prospettiva è l’obbligo di stressare sempre più attentamente la relazione che il tempo dei media instaura con l’antipolitica e, più in generale, con alcuni caratteri distintivi della postmodernità.
Il tenore mediale che caratterizza il tempo in cui viviamo impone oggi un necessario cambio di prospettiva: l’euforia implicitamente racchiusa in definizioni suggestive come società dell’informazione o società della comunicazione deve lasciare il passo a una più attenta e critica osservazione delle modalità attraverso cui i mezzi di comunicazione, grazie a inedite potenzialità di connessione e cooperazione, concorrono alla costruzione e decostruzione della nostra realtà sociale. In quest’ottica, appare fondamentale, dunque, tenere conto di almeno due caratteristiche principali del nostro Mediaevo (in proposito si veda: Il Mediaevo italiano. Industria culturale, tv e tecnologie tra XX e XXI secolo, Carocci, 2005): la “cumulatività” e la “retorica”.
Con il primo termine facciamo riferimento all’esponenziale proliferazione di contenuti mediali che, raggiunto un più elevato livello di compatibilità, vengono rimbalzati su canali diversi, ponendosi come le innumerevoli tessere di uno sterminato mosaico. In questo generale overload informativo, la cui struttura ovviamente non può che essere reticolare, l’immagine complessiva che appare è, paradossalmente, tanto durevole quanto cangiante. Gli eventi sociali e culturali, politici e sportivi conducono in tal modo a forme di focalizzazione sempre più frequenti da parte di un sistema mediale che sembra concentrarsi, per periodi più o meno ristretti, soltanto su specifiche issues. Come se, in quello che George Gerbner definiva il “mainstream mediale” (Against the mainstream: the selected works of George Gerbner, a cura di Michael Morgan, Peter Lang, 2002), l’effetto di composizione dell’agenda avesse ormai raggiunto forme di radicalizzazione estrema.
Con il secondo, invece, prendendo spunto da Roger Silverstone (in particolare, un suo interessante saggio sulla retorica è presente in Perché studiare i media, il Mulino, 2002), intendiamo il prepotente ritorno a una retorica linguistica intesa come meccanismo di riduzione della complessità che trasforma un termine, un concetto, una parola, in uno slogan facilmente replicabile e ostinatamente replicato, anche a costo dello svuotamento progressivo del suo significato originario.L’importanza del capitale sociale
Alla luce di questi assunti, è venuto il tempo di formulare bruscamente alcune domande: dove il giudizio sulla comunicazione va urgentemente rettificato? e dove, invece, occorre ammettere che la valutazione un po’ consolatoria, un po’ rassicurante sugli effetti limitati della comunicazione sui climi culturali si è rivelata un abbaglio scientifico per qualche verso clamoroso? Dobbiamo anzitutto riconoscere un principio generale: l’equivalenza per cui più comunicazione avrebbe necessariamente condotto a una più matura socializzazione, alla messa in opera di un progetto moderno, al rafforzamento cognitivo di un attore sociale finalmente destinato a divenire partecipe e competente, deve fare i conti con evidenze sociali che descrivono fenomeni in controtendenza.
Di fatto, gli occhi della società, perfino dei suoi segmenti più giovani, non sembrano più aperti sul futuro; lo stesso scambio di messaggi fiduciari tra gli individui è di fatto accidentato (sempre che non si sia interrotto in profondità), persino in quelle cerimonie ad alto significato identitario che sono i canali dell’educazione familiare e di quella scolastica. La letteratura scientifica non ha colto in profondità il legame indispensabile tra socializzazione e capitale sociale, e non è dunque stata in condizione di scoprire tempestivamente che l’improvvisa e devastante crisi della formazione si sarebbe tradotta in un esaurimento di quella moneta di scambio che con formula singolarmente efficace i sociologi chiamano appunto capitale sociale (sul concetto di capitale sociale rimandiamo ai testi classici di Pierre Bourdieu, La Distinction. Critique sociale du jugement, Minuit, 1979, James Coleman, Social capital in the creation of human capital, in “American Journal of Sociology”, 94/1988, Robert Putnam (Bowling alone: the collapse and revival of American community, Simon & Schuster 2000). Tutte risorse che sembrano improvvisamente fuori corso.
Nel mix tra paura e vita quotidiana costruito decisivamente dalla comunicazione, avviene la perdita di un elemento fondamentale della vita sociale, il “credere nell’altro”; come corollario di questa perdita, il capitale sociale, che in fin dei conti non è che fiducia interpersonale, benessere che traiamo nelle relazioni con gli altri, subisce un irrefrenabile processo di svalutazione. Come scrive Pierpaolo Donati (Oltre il multiculturalismo. La ragione relazionale per un mondo comune, Laterza, 2008), la dimensione simbolico-espressiva è parte della relazione sociale e la capacità di riconoscimento avviene attraverso l’articolazione di comunanza e differenza, identità e identificazione. Per capire l’altro e il suo comportamento bisogna arrivare a una certa riflessività, in se stessi e nella relazione con l’altro. La riflessività è un ritornare su se stessi per esaminare come il proprio sé abbia elaborato la conoscenza (rappresentazione delle emozioni) di un oggetto o di una qualità dell’altro.
La riflessività moderna è quella di uno specchio e porta a una autoreferenziale individualizzazione degli individui. Se vogliamo relazionarci agli altri, abbiamo bisogno di una “riflessività dopo-moderna”, che superi la ragione autonoma e l’altro come alter ego, per arrivare a un dialogo-confronto.