Crescono le difficoltà di un sistema formativo che non riesce più ad agevolare né chi va né chi torna.
di Gian Piero Jacobelli
Una giovane volpe cadde in una tagliola. Agitandosi, riuscì a fuggire, ma perse la bellissima coda. La povera bestia se ne vergognava, per cui gli altri animali ne ebbero pietà e le applicarono una coda di paglia. Tuttavia, di confidenza in confidenza, la cosa venne risaputa dai contadini, i quali accesero un fuoco davanti ai pollai. La volpe, per paura di bruciarsi la coda, da allora evitò di avvicinarsi e di razziare le galline. La storia è nota, anche per il racconto memorabile di Guido Piovene, da cui per altro si poteva trarre una duplice morale: avversa a chi, per la paura che venga scoperta qualche sua malefatta, la denuncia in maniera eccessiva; e avversa a chi, al contrario, evita persino di accennarvi.
Le reazioni che nelle ultime settimane hanno fatto seguito alla lettera giornalistica in cui Pier Luigi Celli suggeriva al figlio di andarsene all’estero, perché nel nostro paese non avrebbe potuto trovare sufficienti opportunità di lavoro e di affermazione personale, sembrano schierarsi sull’uno o sull’altro versante della ambivalente coda di paglia. C’è chi si è prodigato per rincarare la dose, aggiungendo altre critiche a quelle sommariamente denunciate da Celli, così configurando una vera e propria condizione di invivibilità che, per la verità, non può non lasciare perplessi quanti, in questo famigerato paese, vivono ancora e, nonostante tutto, abbastanza bene. E c’è chi, al contrario, se l’è presa con Celli per una presunta implicita incoerenza, da un lato rinfacciandogli di non avere fatto quanto suggerisce di fare a suo figlio e, dall’altro lato, rimproverandogli di essere parte non trascurabile di quel sistema che gli sembra così ostile e repulsivo.
Almeno in questo caso, la coda di paglia nelle sue diverse configurazioni, in arsi o in tesi, sembra più il sintomo di una carenza che di un eccesso di idee: perché quanto più si dice e si ridice, tanto meno si sa che cosa fare o forse, semplicemente, non si vuole fare nulla, sperando come al solito che i problemi si risolvano da soli. In ogni caso, l’alternativa non può essere quella di un ingenuo invito a rimboccarsi le maniche, alimentandosi, in mancanza di meglio, di un fantomatico orgoglio nazionale, come molte delle reazioni alla lettera di Celli sembrano presumere. L’alternativa, se di alternativa si può parlare, consiste, a nostro avviso, in un allargamento di orizzonte, in grado di inquadrare nel nuovo contesto mondiale, di concorrenza, ma anche di integrazione, il problema dei giovani italiani che, avendo studiato, si trovano impegnati in una defatigante e demoralizzante ricerca di lavoro. Questo allargamento di orizzonte comporta alcune considerazioni di fondo, che trovano in quelle di Celli molti spunti e magari qualche pagliuzza, connessa al rischio di tradurre l’indignazione in una sorta di rassegnato principio di realtà, nonostante ogni esercizio del cosiddetto «pensiero laterale».
Tra il sapere e il fare
Il j’accuse di Celli – proprio in quanto rivolto a un figlio che sta concludendo il proprio impegno di studio per orientarsi verso quello di lavoro, in un passaggio che appare critico non solo in sé, ma anche con riferimento alla situazione generale del paese – sollecita a non perdere di vista una preoccupante situazione non tanto di arretratezza quanto di arretramento, che forse proprio la crisi economica globale tende a offuscare nella logica perversa del «mal comune mezzo gaudio». Soprattutto, induce a chiedersi se i mali del paese – mediocrità, qualunquismo, nepotismo, irresponsabilità e via dicendo – almeno in parte derivino non tanto da una viziosa e irreversibile convergenza sistemica, quanto da una reversibile divergenza di sistemi precedentemente virtuosi, come quello formativo e quello professionale. Non a caso, infatti, da quanto detto si potrebbe trarre la sempre più problematica conclusione che nel nostro paese si possa continuare a studiare bene, anche se si lavora male.
Il primo problema, nonostante la confusione generata dal susseguirsi di riforme alla insegna dello stop and go – non si sa se più insidiose quelle che si rifanno al passato o quelle che si rifanno al futuro, le une e le altre evitando velleitariamente di misurarsi con il presente – concerne il sistema formativo italiano: se, anche ai livelli universitari, purtroppo progressivamente dissociati tra momenti di luminosa eccellenza e momenti di opaca regressione, possa ancora reggere il confronto con quelli degli altri paesi occidentali. Probabilmente non ci si può più gloriare della nostra scuola elementare, come se fosse – si diceva una volta – tra le migliori del mondo, o della nostra scuola media inferiore e superiore, che teneva botta grazie all’innesto creativo del tedesco esprit de géométrie con il francese esprit de finesse e, soprattutto, grazie alla tradizionale osmosi universitaria del corpo docente. Tuttavia, a nostro avviso, le difficoltà più gravi non risiedono tanto nella validità dei suoi singoli segmenti, quanto nei passaggi tra l’uno e l’altro di questi segmenti: sia tra la formazione primaria, la formazione secondaria e la formazione universitaria, sia tra quest’ultima e le specializzazioni professionali, in conseguenza di scelte tanto improvvide quanto improvvisate, che sono state operate sulla scorta di una male intesa battaglia contro le tradizionali chiusure elitarie.
Scuola, università, impresa
Come dimostra la stessa pratica universitaria, nel cui ambito emergono da parte degli studenti carenze di preparazione alle quali risulta sempre più difficile ovviare, si sta allargando in maniera determinante la frattura tra la scuola media superiore e l’università: una frattura che deriva dagli eccessi di una liberalizzazione selvaggia, che ha aperto tutte le porte dell’università ai diplomati di ogni ordine e grado. Non soltanto minimizzando le invitabili lacune informative, che certamente non si lasciano colmare con la stessa facilità con cui maturano e vengono alla luce, ma anche attribuendo le differenze sociali ed economiche a una presunta e condizionata collusione tra percorsi formativi e percorsi professionali. Come se le competenze pratiche e professionali non possano preludere, nelle sedi opportune, a meriti e riconoscimenti analoghi a quelli connessi alle competenze teoriche e culturali.
L’orientamento prevalente verso l’accesso universitario del sistema formativo superiore, in tutte le sue qualificazioni, ha finito per scaricare sull’università incombenze di addestramento e specializzazione, che dovrebbero fare carico e di fatto hanno sempre fatto carico sul sistema produttivo, anche a vantaggio di quest’ultimo, per il quale la cosiddetta professionalizzazione dell’università resta sempre di incerta, incostante e inaffidabile pertinenza, sottraendo invece respiro alla visione critica e alla capacità di adattamento e di innovazione.
In effetti – e si tratta del secondo problema – nonostante ogni contrario intendimento e avviso, si sta allargando anche la frattura tra l’università e il mondo del lavoro, proprio nella misura in cui, paradossalmente, la università ha ritenuto, modificando i propri assetti e stravolgendo sia le forme sia i contenuti dell’impegno formativo, di porsi al traino del mondo del lavoro, mutuandone almeno apparentemente criteri e finalità. A cominciare dalla discutibile riforma del «tre più due», che finisce per confondere teoria e pratica, inficiando sia l’una sia l’altra, a causa delle conseguenti e crescenti carenze di merito e di metodo. Con il paradossale risultato che, proprio quando si sono voluti accelerare i tempi degli inserimenti professionali dei giovani, quanto meno sul versante dell’offerta, le vicissitudini della domanda hanno finito per trasformare questi giovani in «bamboccioni», secondo una non immotivata ironia d’antan.
Insomma, se il circuito virtuoso tra formazione e professione si basava su una predeterminata e consolidata articolazione di attribuzioni e di passaggi, la rimozione progressiva di queste attribuzioni e di questi passaggi, o meglio la loro indebita introiezione nella istituzione universitaria, ha reso quest’ultima sempre meno capace di formare, in relazione sia al sapere sia al fare. Sempre meno capace, in altre parole, di agevolare la maturazione di personalità culturalmente in grado di scegliere prima di essere scelte e di decidere sul proprio futuro prima che questo futuro venga loro proposto già confezionato come un panino di McDonald. Non a caso nell’editoriale del fascicolo scorso abbiamo avuto modo di segnalare come, nonostante non trascurabili eccezioni, miranti a frenarne le derive entropiche, il sistema formativo italiano nel suo complesso cominci a manifestare inerzie e inadempienze sempre più preoccupanti: non soltanto per l’incapacità di orientare e promuovere i propri talenti, ma anche per l’incapacità di individuarli e valorizzarli adeguatamente. E non perché i talenti latitino, anzi; ma perché, del talento, il nostro sistema formativo non sa cosa farsene, né prima, nel contesto delle attività scolastiche, né dopo, nei passaggi verso le attività lavorative.
Viaggiare per trovarsi
Da questo punto di vista, proprio in una accezione personalizzante del processo formativo, l’ipotesi del viaggio all’estero può acquisire o riacquisire tutto il suo valore liberatorio e stimolante: non nel senso di una fuga dal proprio paese, ma in quello di un accrescimento di esperienze, di capacità e di opportunità, che possono aprire al tempo stesso sia le strade dell’andare sia quelle del tornare. Senza che la scelta tra l’andare e il tornare, in un mondo sempre più globalizzato, almeno per quanto concerne la possibilità di muoversi in lungo e in largo, a fini di studio o di lavoro, debba rivestirsi dell’alea di una decisione drammatica, perché definitiva e non razionalizzabile in termini di interessi e di prospettive personali. Al giorno d’oggi non si può non pensare a una estensione mondiale dei circuiti della formazione, nel cui ambito, come per il classico Grand Tour, si possa e si debba prevedere il viaggio all’estero come un fattore fondamentale per conseguire i propri obiettivi. Ovvero, prima ancora, per poterseli dare con cognizione di causa, per comprendere quali obiettivi si vogliano e si possano davvero perseguire, senza doversi irreggimentare nelle vincolanti aspettative degli altri, familiari o estranei che siano.
Purché, ovviamente, da una parte e dall’altra dei confini nazionali sussistano le condizioni, sociali ed economiche, per non venire costretti a tradire se stessi, né in ordine alla propria origine, né in ordine al proprio destino. Altrimenti, non basterebbero i fuochi fatui a difendere le proprie appartenenze dalle code di paglia e, tutto sommato, non resterebbe, contro il proprio stesso interesse, che chiudersi in casa.