Biocarburanti: che costo fa

Produrre etanolo dal mais costa molto. E ci vorranno anni prima che alle stazioni di rifornimento arrivino biocarburanti di migliore qualità. Gli agricoltori sono riluttanti quando si tratta di modificare le loro abitudini. Ma che alternative ci sono?

di David Rotman

L’irragionevole entusiasmo nei confronti dell’etanolo che negli ultimi anni ha investito la cosiddetta cintura del mais negli Stati Uniti ha ceduto il passo a un terribile dopo sbornia, specialmente tra coloro che hanno investito maggiormente negli impianti di produzione che oggi punteggiano, in modo disordinato, il panorama agricolo della regione. Per il Midwest è l’equivalente della bolla speculativa tecnologica del Duemila e per molti versi è una situazione alquanto familiare: gli investitori sovraeccitati che si innamorano di una tecnologia dal potenziale apparentemente illimitato ignorano quelle che, almeno in retrospettiva, sono le ovvietà dell’economia.

Oltre un centinaio di fabbriche di biocarburante, concentrate in maggior parte negli stati delle grandi coltivazioni di granturco (Iowa, Minnesota, Illinois, Indiana, South Dakota e Nebraska) produrranno quest’anno 6,4 miliardi di galloni (24 miliardi di litri) di etanolo e altri 74 impianti sono in via di allestimento. Solo un anno e mezzo fa erano macchine per far soldi, capaci di estrarre da un mais a prezzi stracciati l’etanolo venduto a peso d’oro, suscitando nei politici le speranze di una “indipendenza energetica” e attirando l’attenzione – e il denaro – dei venture capitalists delle coste orientale e occidentale.

Oggi i produttori di etanolo fanno fatica a sbarcare il lunario e molti lavorano in perdita. Il prezzo di uno staio (circa 35 litri) di mais ha raggiunto livelli record nel corso dell’anno, superando quota 4 dollari nell’inverno 2007, attestandosi nell’estate intorno ai 3 dollari e mezzo per tornare di nuovo nella zona dei 4 dollari. Allo stesso tempo, i prezzi dell’etanolo sono crollati a causa dei tassi di saturazione raggiunti dal mercato dei carburanti alternativi, tuttora utilizzati principalmente come additivi nella benzina. Alla luce di queste due opposte tendenze i margini di profitto si sono erosi.

Il malessere del mercato dell’etanolo riflette il prevedibile andamento ciclico di qualsiasi commodity, fatto come sempre di alti e bassi: i prezzi elevati spingono le leve della produzione finché le forniture superano la richiesta, determinando il ribasso dei prezzi. Ma l’impiego su larga scala di etanolo ricavato dal mais come materiale combustibile per il trasporto soffre di problemi economici di natura tutta particolare. Sebbene i prezzi del greggio siano arrivati a livelli record e malgrado il fatto che le compagnie petrolifere che aggiungono etanolo alla loro benzina ricevano un credito fiscale pari a 51 centesimi al gallone, l’etanolo non riesce a diventare competitivo. E, a causa dell’insufficiente infrastruttura per la distribuzione e la commercializzazione del biocarburante, la domanda è destinata a restare incerta anche nell’immediato futuro.

Ancora più allarmante è il fatto che il boom nella produzione di etanolo sta determinando una crescita dei prezzi dei prodotti alimentari. Dei 93 milioni di acri coltivati a granturco negli Stati Uniti nel 2007 (un record), circa il 20 per cento è stato destinato alla produzione di etanolo. Dato che quasi tutto il rimanente serve come foraggio per animali, il prezzo della carne bovina, del latte, del pollame e del maiale è influenzato da quello del mais. Recentemente l’Oranizzazione internazionale per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) ha lanciato l’allarme affermando che la “rapida crescita dell’industria del biocarburante” potrebbe sfociare in una radicale trasformazione dei mercati agricoli mondiali, “dando addirittura luogo a carestie.”

Tutto ciò si verifica in un momento in cui il fabbisogno di alternative ai carburanti per trasporto derivati dal petrolio si fa sempre più urgente. Mentre andiamo in stampa il prezzo del barile è di circa 90 dollari. E le preoccupazioni relative all’impatto delle emissioni di gas serra dai circa 540 miliardi di litri di benzina bruciati ogni anno si fanno sempre più serie. Un impiego più esteso di biocarburanti è fondamentale per la strategia energetica di lungo termine del governo federale. Nel suo discorso sullo Stato dell’Unione del 23 gennaio del 2007 il presidente George Bush aveva fissato un obiettivo di produzione di 135 miliardi di litri di carburanti rinnovabili e alternativi entro il 2017, citando il bisogno di indipendenza dalle forniture di petrolio dall’estero. Il Dipartimento americano dell’Energia ha fissato un analogo obiettivo: sostituire il 30 per cento della benzina utilizzata con biocarburante entro il 2030.

I due obiettivi richiederebbero entrambi la realizzazione di significativi passi avanti tecnologici. Negli Stati Uniti, al momento, con il termine metanolo si sottintende la versione estratta dal mais. (I produttori brasiliani avevano un obiettivo di 19 miliardi di litri prodotti nel 2007, principalmente dalla canna di zucchero; ma questa coltivazione semitropicale è praticabile, dal punto di vista agricolo, solo in alcune parti degli Stati Uniti.) Gli stessi fautori dell’etanolo derivato da mais ammettono che i livelli di produzione non possono crescere molto oltre la soglia dei 57 miliardi di litri annui, ben al di sotto del limite fissato da Bush.

Se il presidente e gli altri sostenitori del modello dei biocarburanti hanno spesso fatto riferimento all’etanolo estratto da foraggi alternativi, come il panico verga (Panicum Virgatum, in inglese switchgrass) – pianta nativa degli Stati delle grandi praterie americane, dove cresce diffusamente – la tecnologia necessaria è ancora lontana quattro o cinque anni dalla commercializzazione. Nel frattempo, avanzate tecniche biologiche per la creazione di nuovi organismi in grado di produrre altri tipi di biocarburanti, come gli idrocarburi, sono chiusi nei laboratori. Finora i ricercatori sono in grado di produrre quantitativi che non basterebbero a riempire il serbatoio di un veicolo SUV di grandi dimensioni.

Gli ostacoli di natura economica e i limiti di mercato dell’etanolo derivato da mais sono un doloroso promemoria delle immense difficoltà che gli sviluppatori di nuovi biocarburanti devono affrontare. «Il messaggio è che è fondamentale riuscire a produrre carburanti a buon mercato», afferma Frances Arnold, docente di ingegneria chimica e biochimica presso il Caltech. «Tutti siamo in grado di produrre una piccola quantità di qualsiasi cosa. Ma il fatto è che dobbiamo produrne tantissimo e in modo che non sia troppo costoso. Il problema è talmente gigantesco che la tecnologia che inventeremo deve adeguarsi ad altissimi volumi di produzione e lo deve fare a un prezzo concorrenziale. La concorrenza si farà tutta sul prezzo».

La malattia del mais

Il posto più indicato per una valutazione il più possiblie realistica delle prospettive dei biocarburanti è forse il Dipartimento di Economia applicata della Università del Minnesota. L’ampio campus che ospita il Dipartimento e il resto della Facoltà di Agraria dell’ateneo poggia su una bassa collina di una tranquilla zona di St. Paul, la capitale dello Stato. Acri di campi che ospitano le varie coltivazioni sperimentali si estendono oltre i confini del complesso universitario. Nelle vicinanze si trova l’area occupata dalla Minnesota State Fair, un evento espositivo che per dodici giorni attira più di un milione e mezzo di visitatori alla fine della stagione estiva.

Il Minnesota è il quarto produttore di mais degli Stati Uniti e il grosso della sua economia, addirittura della sua cultura, è intimamente legata a questa coltivazione. La corsa al rialzo del prezzo del mais è stata una manna per le comunità agricole rurali di questo stato. E il governatore e altri politici hanno fortemente incoraggiato l’uso dell’etanolo come carburante per trasporti. Eppure, non ci sono molti tifosi dell’etanolo da mais nel semplice edificio in mattoni rossi che ospita il Dipartimento.

Nel suo ordinato ufficio, tra le pile di giornali scientifici e relazioni dai campi ben accatastati sul tavolo, Vernon Eidman, docente emerito di economia agricola, coniuga l’autorevolezza dello studioso alla caparbietà di un banchiere del Midwest. «Li abbiamo visti arrivare», dice a proposito dei guai che si sono abbattuti sul mercato dei produttori di etanolo. «Non è che tutti fossero ciechi. O perlomeno avrebbero dovuto aspettarseli.» Nel 2006 «hanno realizzato profitti impensabili,» afferma Eidman. «E questo è uno dei principali fattori che hanno portato a questa terribile saturazione.»

Le cifre parlano da sole. I calcoli fatti da Eidman indicano quanto costa, in funzione della variabile di prezzo del mais, produrre etanolo per un impianto di medie dimensioni. A 4 dollari a staio, l’etanolo costa, alla produzione, 1,70 dollari a gallone (un gallone equivale a circa 3,8 litri); per ottenere un ritorno del 12 per cento sugli investimenti, i produttori devono rivendere l’etanolo a 1,83 dollari al gallone. Poi Eidman mostra le cifre ottenute relativamente ai prezzi che le compagnie petrolifere versano quando acquistano l’etanolo da miscelare alla loro benzina: a dicembre il prezzo si aggirava intorno a 1,90 dollari a gallone e le offerte per il 2008 vanno da 1,75 a 1,80 dollari. In altre parole il margine di profitto per i produttori si è estremamente ridotto. A complicare ulteriormente le cose, afferma Eidman, la capacità produttiva, che a inizio 2007 si era attestata poco sotto i 21 miliardi di litri, nel 2010 supererà quota 47 miliardi di litri.

Se l’aumento di produzione di etanolo ha portato agli attuali timori di eccessivo surplus, l’altro lato dell’equazione di mercato è fonte di maggiori preoccupazioni: la futura richiesta di etanolo combustibile non è affatto garantita. In alcune parti del Paese, in particolare negli Stati della cintura del mais, gli automobilisti possono acquistare benzina composta all’85 per cento di etanolo. Ma nella maggior parte dei casi le compagnie petrolifere utilizzano la sostanza al 10 per cento di concentrazione, per aumentare il contenuto di ossigeno della loro benzina. Tale mercato non solo è molto limitato, ma il carburante al 10 per cento di etanolo determina anche una leggera diminuzione del rapporto litro/chilometri, con un potenziale effetto di disaffezione da parte dei consumatori nei confronti dei biocarburanti.

A preoccupare gli agronomi non è soltanto l’economia a breve termine dell’etanolo. Gli studiosi avvertono che l’etanolo estratto dal mais non è il “carburante verde” che molti suoi fautori hanno descritto. La ragione è legata alla notevole quantità di energia che la produzione di etanolo consuma, sia per coltivare il mais sia soprattutto per far funzionare gli impianti di fermentazione che trasformano lo zucchero che trasuda dai chicchi nell’alcool utilizzato come carburante. La quantità esatta di energia necessaria è oggetto di accesi dibattiti accademici apparsi su varie riviste scientifiche nel corso degli ultimi anni.

Secondo i calcoli svolti dai ricercatori dell’Università del Minnesota, il 54 per cento dell’energia totale raprpesentata da un gallone di etanolo è compensata dall’energia utilizzata per il trattamento del combustibile; un altro 24 per cento viene assorbito dall’energia richiesta per coltivare il mais. Se alla fine rimane un 25 per cento di energia in più rispetto a quella utilizzata per produrre etanolo, altri carburanti generano margini assai maggiori, sostiene Stephen Polasky, docente di economia dell’ecologia e dell’ambiente presso l’Università del Minnesota. Fabbricare etanolo «non è un procedimento a buon mercato», dice lo studioso. «Dal mio punto di vista il problema principale [dell’etanolo derivato dal mais] sono la banale economia e i costi. Il rapporto tra input e output energetico non è molto buono».

Gli elevati requisiti energetici associati alla produzione di etanolo implicano che il suo impiego come carburante non è molto diverso, per l’ambiente, dall’impiego di semplice benzina. Saremmo portati a pensare che bruciare il biocarburante determini il rilascio della stessa quantità di diossido di carbonio che il mais ha intercettato crescendo. Ma questa immagine semplicistica, tante volte invocata a sostegno dell’uso di etanolo come carburante, non regge a un’analisi più accurata.

Al contrario, a quanto afferma Polasky, i carburanti fossili richiesti nel corso della coltivazione e del raccolto del mais e per la produzione di etanolo sono responsabili di un livello significativo di emissioni. Non solo, ma la coltivazione del mais produce anche due altri potenti gas serra: l’ossido nitroso (o protossido di azoto) e il metano. Polasky calcola che l’etanolo estratto dal mais è responsabile di un livello di emissione di gas serra del 15-20 per cento inferiore a quello associato alla benzina. «Ne deriva che in termini di emissioni di gas serra un leggero risparmio c’è, ma non è molto significativo».

Se l’etanolo estratto dal mais ha avuto un modesto impatto sui mercati dell’energia e sulle emissioni di gas serra, la sua produzione potrebbe invece avere serie ripercussioni sui mercati agricoli. Non solo i prezzi del mais sono molto aumentati, ma lo stesso vale per la soia, perché gli agricoltori piantano meno soia per far posto al mais.

Sul numero di maggio/giugno 2007 della rivista «Foreign Affairs», C. Ford Runge, docente di economia applicata e diritto presso la Minnesota, ha partecipato alla pubblicazione di un articolo intitolato How biofuels could starve the poor (Perché i biocarburanti possono affamare i poveri), in cui si sostiene che “gli enormi volumi di mais richiesti dall’industria dell’etanolo stanno provocando un’onda sismica attraverso l’intera catena alimentare”. Sei mesi dopo, seduto alla scrivania dell’ampio ufficio da cui dirige il Center for International Food and Agricultural Policy dell’Università, Runge pare divertito dalle critiche suscitate dalla lettura dall’articolo da parte dei politici locali e degli operatori coinvolti nel business dell’etanolo. Ma continua a sostenere le sue argomentazioni: «è facilmente dimostrabile che i prezzi del latte e quelli del pane crescono tutti a un tasso pari a tre volte il valore del tasso medio di crescita degli ultimi dieci anni. è un valore non trascurabile, e infatti non viene trascurato».

Il recente rapporto pubblicato dall’OCSE lo scorso settembre è solo l’ultima conferma, in ordine di tempo, dell’allarme lanciato da Runge. E considerando che una più alta percentuale dei loro guadagni viene spesa in cibo, sottolinea lo studioso, «i poveri sono i primi a essere colpiti». Dato che gli Stati Uniti esportano circa il 20 per cento del mais, i poveri nel resto del mondo rischiano più di altri. Runge riferisce, per esempio, del raddoppio subito dal prezzo delle tortillas in Messico un anno fa.

Tutti questi fattori vanno contro la promessa dell’etanolo da mais come soluzione del problema energetico. «La mia impressione», dice Polasky, «è che l’etanolo finirà per giocare un ruolo marginale in termini di fabbisogno energetico». L’economista calcola che, anche qualora tutto il mais coltivato negli Stati Uniti fosse convertito in etanolo, il biocarburante riuscirebbe a rimpiazzare appena il 12 per cento del consumo complessivo di benzina. «Se lo stiamo facendo nel quadro di una politica dell’energia, non ne vedo l’utilità, afferma. «Se lo facciamo nel quadro di una politica di sostegno all’agricoltura, potremmo avere qualche motivo in più. Ma dovremmo compiere il passaggio alla prossima generazione di tecnologie per avere un impatto significativo sui mercati dell’energia».

I superbatteri

Fin dall’epoca della prima crisi petrolifera degli anni Settanta, quando il prezzo del barile si era impennato, gli esperti di ingegneria chimica e biologica sono corsi dietro a nuovi metodi per trasformare le grandi scorte di materiali “cellulosici” della nazione – legno, residui agricoli ed erbe perenni – in etanolo e altri biocarburanti. Lo scorso anno, riferendosi a un altro degli obiettivi fissati dal presidente Bush – ridurre il consumo di benzina del 20 per cento in dieci anni – il Dipartimento dell’Energia ha annunciato un massimo di 385 milioni di dollari di finanziamento da destinare a sei progetti di “bioraffineria” che sfrutteranno diverse tecnologie per produrre etanolo da tipologie di biomasse che vanno dai trucioli di legno al panico vergato.

Secondo un rapporto pubblicato nel 2005 dai Dipartimenti dell’Energia e dell’Agricoltura, gli Stati Uniti dispongono di una superficie di foreste e terreni agricoli sufficienti a produrre 1,3 miliardi di tonnellate di biomassa da indirizzare verso i biocarburanti. Oltre ad assicurare una vasta fornitura di foraggio a buon mercato, la biomassa cellulosica potrebbe incrementare enormemente i livelli energetici e i vantaggi ambientali dei biocarburanti. Occorre molta meno energia per coltivare i materiali cellulosici rispetto al mais e una parte della biomassa può essere utilizzata per agevolare il processo produttivo (anche l’etanolo da canna da zucchero prodotto in Brasile offre diversi miglioramenti rispetto all’etanolo da mais, grazie al superiore rendimento di quel tipo di coltura e all’elevato contenuto di zucchero).

Malgrado anni di ricerche e i recenti investimenti mirati al potenziamento dei livelli di produttività, tuttavia, ancora non esiste un impianto commerciale per la produzione di etanolo cellulosico. Dal punto di vista economico la spiegazione è semplice: costruire un simile impianto è troppo costoso. La cellulosa, un polisaccaride a catena lunga che costituisce il grosso della massa di piante e residui agricoli legnosi come gli steli delle pannocchie, è difficile – e quindi costosa – da frantumare chimicamente.

Esistono di fatto diverse tecnologie per la produzione di etanolo dalla cellulosa. Il materiale può essere scaldato ad alta pressione in presenza di ossigeno per dar luogo a un gas di sintesi, una miscela di monossido di carbonio e idrogeno che può essere rapidamente convertita in etanolo e altri combustibili. In alternativa, si possono usare enzimi industriali che frantumano la cellulosa trasformandola in zucchero. Gli zuccheri in seguito alimentano la reazione di fermentazione all’interno dei quali l’etanolo viene prodotto da microrganismi. Ma tutti questi processi sono ancora troppo costosi per essere utilizzati su scala industriale.

Persino gli stessi fautori dell’etanolo cellulosico valutano il costo in capitale legato alla costruzione di un impianto manifatturiero a un livello più che doppio rispetto a una analoga fabbrica per l’estrazione da mais e altre stime collocano questi investimenti su livelli tripli o quintupli. «Oggi è possibile fabbricare etanolo da cellulosa, ma il prezzo non è certo ottimale», afferma Christopher Somerville, biobotanico presso l’Università della California, a Berekeley, che studia il modo in cui la cellulosa si forma e viene utilizzata all’interno delle pareti cellulari delle piante.

«La cellulosa gode di proprietà fisiche e chimiche che rendono difficile accedervi e spezzarne i legami», spiega, al Caltech, la Arnold che, fin dagli anni Settanta, ha saltuariamente lavorato sugli approcci biologici alla produzione di etanolo cellulosico. Da un lato le fibre di cellulosa sono tenute insieme grazie a una sostanza chiamata lignina, «che somiglia un poco all’asfalto», afferma la Arnold. Una volta rimossa la lignina, la cellulosa può essere frantumata dagli enzimi, che tuttavia sono costosi e nella forma attuale non sono certo ottimizzati per questo compito.

Molti ricercatori ritengono che il modo più promettente per ottenere biocarburanti cellulosici concorrenziali sul piano economico passa per lo sviluppo, o la scoperta, di “superbatteri”, microrganismi che possano metabolizzare la cellulosa in zucchero e successivamente far fermentare questi zuccheri in etanolo. L’idea è prendere un procedimento in più tappe che oggi richiede l’aggiunta di costosi enzimi e trasformarlo in un singolo processo molto semplificato, che gli esperti chiamano bioprocessamento consolidato. Secondo l’opinione di Lee Lynd, docente di ingegneria presso il Dartmouth College e co-fondatore di Mascoma, azienda con sede a Cambridge, nel Massachusetts, che oggi commercializza una particolare versione di questa tecnologia, l’approccio consolidato consentirà in futuro di produrre etanolo al prezzo di 70 centesimi di dollaro al gallone. «Sarabbe una innovazione fondamentale», afferma. «Nessuno dubiterebbe della sua attrattiva».

Ma individuare questi superbatteri, finora, non è stato facile. Da decenni gli scienziati hanno identificato batteri capaci di degradare la cellulosa producendo anche piccoli quantitativi di etanolo. Ma nessuno di questi può svolgere questa funzione in modo abbastanza rapido ed efficiente per un contesto di produzione industriale.

La natura, spiega la Arnold, non ci aiuta. «Esistono organismi che spezzano la catena della cellulosa», afferma la ricercatrice, «ma il problema è che non producono il carburante. In queste condizioni non ci servirebbero granché. Una alternativa, aggiunge la Arnold, consiste nel modificare geneticamente il batterio E. coli e il lievito in modo da far loro produrre gli enzimi che degradino la cellulosa. Ma se è vero che questo lavoro potrebbe essere svolto da diversi tipi di enzima, «la maggior parte di loro non ama essere inserito dentro agli E. coli o al lievito».

La Arnold si dice, malgrado tutto, ottimista sulla possibilità di scoprire l’organismo giusto. «Non puoi mai sapere che cosa accadrà domani», dice, «potrebbe succedere che si arrivi al traguardo attraverso la biologia di sintesi o perché qualcuno si ritrova il batterio sotto la suola della scarpa».

Senza essere passata esattamente per la suola delle sue scarpe, Susan Leschine, microbiologa della Università del Massachusetts, a Amherst, è convinte di essere inciampata in un bacherozzo che potrebbe fungere allo scopo. Lo ha individuato in un campione di terriccio raccolto più di dieci anni fa nei boschi che circondano il bacino artificiale Quabbin, a una ventina di chilometri dal suo laboratorio. Quello proveniente da Quabbin era solo uno dei tanti campioni provenienti da tutto il mondo che la Leschine ha analizzato nel corso del tempo. Per questo sono passati tanti anni prima che i suoi studi fossero completati. Ma alla fine è risultato che uno dei batteri, il Clostridium phytofermentans, possedeva proprietà straordinarie. «Riusciva a decomporre quasi tutte le componenti di una pianta, generando etanolo come sottoprodotto principale», spiega Leschine. «Le quantità di etanolo prodotto sono prodigiose».

Ad Amherst Leschine ha fondato una azienda chiamata SunEthanol, che cercherà di sviluppare una capacità produttiva di etanolo basata su questo batterio. C’è ancora «molta strada da fare», riconosce la scienziata, aggiungendo però che «ciò che abbiamo in mano è molto diverso e questo ci dà un buon margine di vantaggio. Un microbo lo abbiamo già e lo abbiamo sperimentato su foraggi reali». Leschine ritiene probabile che in futuro vengano scoperti altri microorganismi utili: un singolo campione di terriccio ne contiene centinaia di migliaia di varietà. «In questo zoo di microbi», dice, «possiamo immaginare che ce ne siano altri con analoghe proprietà.

Bisogna far fiorire le praterie

La positività o la negatività dell’impatto ambientale dell’etanolo cellulosico dipenderà tuttavia dal tipo di biomassa che verrà utilizzata e da come questa verrà coltivata. Nel suo ufficio di St. Paul, David Tilman, docente di ecologia all’Università del Minnesota, tira fuori una gigantografia aerea di un campo suddiviso in una griglia regolare di appezzamenti. Anche da un punto di vista così elevato rispetto al suolo la terra sembra molto povera. In un appezzamento si notano sottili filari di erba e il suolo sabbioso sottostante è ben visibile. Tilman racconta che il terreno era così poco fertile che ogni tentativo di sfruttamento agricolo era stato abbandonato. Poi Tilman e i suoi colleghi hanno provveduto a rimuovere completamente quel che restava dello strato superficiale di terriccio. «Nessuno dei nostri agricoltori ha una terra tanto cattiva», afferma. In una serie di esperimenti, Tilman ha coltivato una miscela di erbe di prateria autoctone (incluso il panico vergato) in alcuni appezzamenti del terreno, destinando altre zone a singole specie. I risultati indicano che la miscela diversificata di erbe, anche se coltivata su terreni estremamente inariditi, «potrebbe essere una valida fonte di biocarburanti», afferma. «Potremmo ottenere una maggior quantità di etanolo da un acro [di erbe varie] che da un acro di mais». Non solo. In un articolo pubblicato su “Science” Tilman ha dimostrato che le erbe di prateria potrebbero servire per produrre etanolo “a carbonio negativo”: le piante potrebbero addirittura consumare e accumulare più anidride carbonica di quella rilasciata producendo e bruciando il carburante da esse ricavato.

La scoperta è stupefacente perché suggerisce l’esistenza di una modalità ecologicamente vantaggiosa per produrre massicci quantitativi di biocarburanti senza entrare in competizione con le coltivazioni alimentari. Entro il 2050, ritiene Tilman, il mondo avrà bisogno di un miliardo di ettari di terreno per l’agricoltura. «Una superficie pari all’intera massa continentale degli Stati Uniti solo per dar da mangiare al mondo», sottolinea. «Se con il terreno arabile producessimo grandi quantità di biocarburanti – è facile prevedere un miliardo di ettari destinato a tale scopo – non resterebbe più alcuno spazio naturale e dopo 50 anni sparirebbero anche le riserve». Al contrario, sostiene Tilman, avrebbe molto senso far crescere la biomassa per il carburante su terreni relativamente infecondi non più destinati all’agricoltura.

Ma fuori dall’ufficio di Tilman, ai piedi della collina, i suoi colleghi del Dipartimento di Economia applicata temono le conseguenze pratiche legate all’impiego di vasti quantitativi di biomassa per la produzione di carburante. Tanto per cominciare, sottolineano, devono ancora essere sviluppate la tecnologia e le infrastrutture in grado di movimentare e trasportare in modo efficiente le ingombranti biomasse. E, considerato che i costi di spostamento del materiale vegetale saranno molto elevati, gli impianti di produzione del biocarburante dovranno essere prossimi ai luoghi di origine dei foraggi, verosimilmente in un raggio di 75 chilometri.

Il volume di biomassa necessario per alimentare una stazione di produzione di etanolo di medie dimensioni è inquietante. Eidman calcola che un impianto da 190 milioni di litri all’anno richiederebbe l’arrivo di un camion di biomassa ogni sei minuti, 24 ore su 24. Come se non bastasse, la biomassa «non è gratuita»: costerà tra i 60 e i 70 dollari la tonnellata, pari a 75 centesimi per gallone di etanolo. «è su questo punto che molti fanno confusione», aggiunge.

Non essendo ancora stati costruiti veri e propri impianti per l’estrazione di etanolo dalla cellulosa, prosegue Eidman, è difficile analizzare gli specifici costi delle varie tecnologie. Nel complesso, lo studioso lascia intuire che le prospettive economiche appaiano «interessanti», ma l’etanolo cellulosico dovrà competere con i biocarburanti estratti dal mais e arrivare a costare qualcosa come un dollaro e mezzo al gallone. Eidman ritiene che i biocarburanti estratti dalla cellulosa «non potranno essere un fattore rilevante» sui mercati prima del 2015.

Gli esiliati

Se ingegneri chimici, microbiologi, agronomi e altri scienziati cercano il modo di rendere competitiva sul piano commerciale l’estrazione di etanolo da cellulosa, un gruppo di biologi di sintesi e ingegneri del metabolismo si sta concentrando su una strategia completamente diversa. A più di 2.000 chilometri dalla cintura del mais del Midwest, diverse startup californiane, fondate con capitale di rischio dai pionieri del nascente settore della biologia sintetica, stanno sviluppando nuovi microrganismi progettati per produrre biocarburanti diversi dall’etanolo.

Dopo tutto l’etanolo non è certo il carburante ideale. Basato su una molecola di due atomi di carbonio, ha appena i due terzi del contenuto energetico della benzina, che è una miscela di idrocarburi a catena lunga. Per dirla in altro modo, occorrerebbe un gallone e mezzo di etanolo per ottenere lo stesso chilometraggio di un gallone di benzina. E, dato che l’etanolo si mescola con l’acqua, alla fine del processo di fermentazione bisogna sottoporlo a una costosa fase di distillazione. Come se non bastasse, visto che l’etanolo può essere contaminato dall’acqua con più facilità rispetto agli idrocarburi, non è possibile distribuirlo attraverso le tubazioni che consentono di distribuire la benzina in tutti gli Stati Uniti senza costi eccessivi. L’etanolo deve essere trasportato su vagoni ferroviari speciali (i camion, in considerazione del loro carico relativamente piccolo, sono di solito troppo cari), aggiungendo un costo ulteriore a questo carburante.

Al posto dell’etanolo, le startup californiane pensano piuttosto di produrre idrocarburi innovativi. Come l’etanolo, i nuovi composti si otterrebbero per fermentazione dallo zucchero, ma la loro composizione viene progettata per essere molto vicina a quella della benzina, del diesel e perfino del carburante per aviogetti. «Abbiamo studiato l’etanolo», dice Neil Renninger, senior vicepresidente per lo sviluppo e co-fondatore di Amyris Biotechnologies, società con sede a Emeryville, in California, «e ci siamo resi conto dei sui limiti: perciò desideravamo realizzare qualcosa che assomigliasse maggiormente ai carburanti convenzionali. Fondamentalmente la nostra idea era di fabbricare degli idrocarburi. Gli idrocarburi sono le sostanze presenti attualmente nella benzina e permettono di ottenere i carburanti migliori perché intorno a essi abbiamo progettato i nostri motori». Se i ricercatori saranno in grado di ingegnerizzare per via genica i microbi che producono tali sostanze, l’economia dei biocarburanti cambierebbe completamente.

Il problema è che la natura non offre esempi conosciuti di microrganismi capaci di far fermentare gli zuccheri nel tipo di idrocarburi utilizzabili come carburante. Per questa ragione gli specialisti di biologia di sintesi sono costretti a partire da zero. Il procedimento consiste nell’identificare le reazioni metaboliche più promettenti in altri organismi e inserire i geni corrispondenti nel batterio E. coli o nel lievito, ricombinando i tracciati metabolici fino a far loro ottenere i prodotti desiderati.

Alla LS9 di San Carlos, in California, i ricercatori sono impegnati a trasformare l’E. coli in un produttore di idrocarburi attraverso la reingegnerizzazione del normale metabolismo degli acidi grassi di questo batterio. Stephen del Cardayré, vice- presidente di LS9 per lo ricerca e sviluppo, afferma che la sua azienda ha deciso di focalizzarsi sugli acidi grassi perché gli organismi ne producono naturalmente in abbondanza, da usare come riserva di energia. «Volevamo trarre vantaggio da un sistema che in modo del tutto naturale produce una gran quantità di questa sostanza», dice del Cardayré. «Provi solo a tastarsi i fianchi!» Del Cardayré e i suoi collaboratori utilizzano molti dei tracciati effettivamente presenti nel metabolismo degli acidi grassi dell’E. coli, ma alla fine del ciclo metabolico impongono una deviazione. Poiché gli acidi grassi consistono in una catena di idrocarburo e un gruppo carbossilico, è abbastanza immediato ricavarne carburanti. «Immaginatevi una autostrada», spiega del Cardayré. «Alla fine dell’autostrada mettiamo una deviazione, un tracciato di nostra invenzione e ci fermiano lì, in modo che gli acidi grassi trovino una destinazione migliore. Li tiriamo fuori e li modifichiamo chimicamente, utilizzando il nuovo tracciato sintetico che li porta a diventare il prodotto che vogliamo».

Anche Amyris ha imboccato l’approccio biologico di sintesi, ma, invece di intervenire sul metabolismo degli acidi grassi, ha preferito lavorare sui tracciati che danno luogo agli isoprenoidi, una classe molto estesa di composti chimici naturali. Finora, tuttavia, tanto LS9 che Amyris riescono a produrre appena qualche litro per volta di carburante. E se le due aziende ostentano un calendario molto ambizioso per l’industrializzazione delle loro tecnologie – entrambe affermano che i procedimenti saranno pronti per il 2010 – l’aumento della produttività e della rapidità delle loro reazioni resta una sfida decisiva. «è la direzione verso cui puntano quasi tutte le ricerche dei biologi», dice Renninger. «Abbiamo ancora un bel pezzo di strada da fare, ma quel pezzo di strada è molto importante».

Se alla fine entrassero davvero in commercio i carburanti agli idrocarburi prodotti da LS9 e Amyris potrebbero compensare molti degli inconvenienti economici dell’etanolo. A differenza di quest’ultimo, gli idrocarburi si separano dall’acqua durante il processo di fabbricazione e quindi non necessitano di alcuna fase di distillazione, molto onerosa sul piano energetico. Inoltre i carburanti a idrocarburi potrebbero essere facilmente distribuiti attraverso le tubature usate per il petrolio e derivati. «Tutto il problema si riduce al costo», dichiara Robert Walsh, presidente della LS9. Ma un fattore critico è il prezzo dei foraggi. «Quello che vogliamo è uno zucchero che costi pochissimo».

In effetti le giovani aziende di sintesi biologica devono affrontare lo stesso tipo di difficoltà che la più affermata industria di produzione di etanolo ha davanti a sé: per il biocarburante il mais non è una materia prima a buon mercato. «La prossima generazione [di foraggio] sarà di origine cellulosica», sostiene John Melo, amministratore delegato di Amyris. «Ma non siamo ancora certi di quale tecnologia per la cellulosa riuscirà ad affermarsi». Qualunque sia il vincitore, aggiunge Melo, Amyris si aspetta di poterlo “agganciare” sui propri procedimenti di fermentazione, in modo da poter trarre vantaggio sia dai foraggi di tipo cellulosico sia dai carburanti a idrocarburo più praticabili.

Per il momento, tuttavia, la mancanza di una alternativa al mais spinge Amrys a uscire dai confini nazionali. L’azienda, che prevede di incorporare i suoi sistemi negli impianti attualmente utilizzati per produrre etanolo consentendo loro di generare anche idrocarburi, inizierà a collaborare con i produttori brasiliani di etanolo che utilizzano la canna da zucchero come foraggio. In considerazione dei prezzi del mais e dei livelli di energia necessari per produrli, ribadisce Melo, la canna brasiliana garantisce la modalità «più pratica e sostenibile» per fabbricare biocarburanti.

Non c’è altra scelta

Anche nell’ambiente della Silicon Valley, che venera i venture capitalists di maggior successo, Vinod Khosla gode di un posto d’onore. Khosla, che all’inizio degli anni Ottanta è stato uno dei fondatori di Sun Microsystems, in seguito è entrato a far parte della società di investimenti Kleiner Perkins Caufield e Byers, dove a fine anni Novanta e all’inizio del Duemila si è costruito un’ottima reputazione per avere ignorato l’eccitazione che tutti avevano nei confronti delle dot.com e avere privilegiato una serie di esoteriche startup nel settore, assai meno appariscente, delle reti in fibra ottica. Quando molte delle sue startup furono acquistate per parecchi miliardi di dollari da aziende più grandi impegnate nell’adeguamento delle loro infrastrutture al boom di Internet, Khosla diventò, come titolò un po’ sopra le righe un giornale di allora, “il venture capitalist numero uno del mondo”.

Attualmente Khosla, diventato uno degli uomini più ricchi del mondo (la classifica Forbes 400 lo colloca al 317esimo posto, con un patrimonio netto di 1,5 miliardi di dollari), punta il grosso dei suoi investimenti nel settore dell’energia alternativa. Il suo portafoglio comprende più di una dozzina di startup impegnate nei biocarburanti, tra le quali LS9 e Amyris, che si occupano di biologia sintetica, e aziende impegnante sul versante della cellulosa, come Mascoma, e altre focalizzate sull’etanolo da mais, come Cilion, con sede a Goshen, in California. Ma definire Khosla come un semplice investitore significa sminuire di parecchio la portata del suo coinvolgimento. Da parecchi anni spicca come uno dei maggior fautori di questa tecnologia, della quale va decantando le virtù difendendola apertamente da ogni detrattore.

Gli scettici nei confronti dei biocarburanti lo esasperano. Il cambiamento climatico, afferma, è «di gran lunga la questione più importante» dietro il fenomeno dei biocarburanti. Se vogliamo evitare il cambiamento del clima e ridurre il consumo di benzina, «non ci sono alternative» all’uso di biocarburanti cellulosici nei trasporti. «La biomassa è l’unico tipo di foraggio presente in quantità sufficienti da rimpiazzare a costi sostenibili il petrolio», dice. «Non c’è nient’altro». Veicoli ibridi ed elettrici, conclude, sono «solo giocattoli».

In particolare, secondo Khosla, qualsiasi tecnologia di trasporto deve affrontare la concorrenza in Cina e India, i due mercati automobilistici più in crescita in questo momento nel mondo. «Non è difficile vendere un milione di vetture elettriche in posti come la California», osserva. Difficile è vendere un veicolo ibrido da 20 mila dollari a un indiano. «Non c’è proprio scampo. E qualsiasi tecnologia che non possa essere adottata in Cina o in India è del tutto irrilevante ai fini del cambiamento climatico»,dice ancora. «Gli ambientalisti non si concentrano abbastanza sul problema della scalability. Se non puoi incrementare la tua capacità produttiva, hai in mano un giocattolo. Da cui deriva la necessità dei biocarburanti. Da cui deriva la necessità dei biocarburanti dalla biomassa».

Negli editoriali prelevabili dal sito Web della Khosla Ventures, la società di investimenti da lui fondata nel 2004 pesantemente impegnata nel campo dei biocarburanti e di altre tecnologie ambientali, Khosla prevede che la produzione di biocarburanti sia destinata a incrementare rapidamente nell’arco dei prossimi 20 anni. In base alle cifre da lui fornite, la produzione di etanolo da mais si stabilizzerà intorno ai 57 miliardi di litri entro il 2014, ma l’etanolo cellulosico aumenterà costantemente, raggiungendo nel 2030 i 530 miliardi di litri. A quel punto, prevede il finanziere, i biocarburanti saranno sufficientemente a buon mercato e abbondanti da sostituire la benzina per quasi tutte le sue applicazioni.

Pur essendo disposto a riconoscere i limiti dell’etanolo da mais, Khosla dice che la sostanza ha rappresentato un «buon punto di partenza»: il mercato dell’etanolo da mais ha dato luogo a una infrastruttura e a un mercato per i biocarburanti in generale, rimuovendo molti dei rischi finanziari legati all’investimento in etanolo da cellulosa. «Il motivo per cui l’etanolo da mais mi piace sta nella sua parabola, che porta all’etanolo da cellulosa», spiega. «Senza l’etanolo da mais, nessuno oggi investirebbe nel cellulosico».

Ma tornando al Midwest, l’atteggiamento nei confronti di queste stime troppo teoriche si ispira al pragmatismo di chi chiede di vedere le carte, senza contare la pressante questione di come fare a convertire alla biomassa le vaste infrastrutture agricole della nazione. Se le proiezioni avanzate da Khosla si riveleranno attendibili «benissimo», esclama Runge dal suo ufficio dell’Università del Minnesota. «Nel frattempo, dobbiamo fare i conti con la realtà. Forse il nodo principale delladiscussione, suggerisce Runge, è che l’etanolo da mais ossere propedeutico allo sviluppo di nuove tecnologie o se ci viceversa rischi di diventare un ostacolo. «A mio parere l’etanolo da mais è una barriera alla conversione della cellulosa,» afferma, mettendo in risalto l’inerzia provocata dagli ingenti interessi politici ed economici investiti nell’etanolo e nelle sue infrastrutture.

Runge non è il solo a manifestare il suo scetticismo. «A meno di non riuscire a ridurre in misura significativa i costi, l’etanolo da cellulosa non andrà da nessuna parte,» sostiene Wally Tyner, docente di economia agraria della Purdue University. Rendere praticabile l’ipotesi dell’etanolo cellulosico richiederà un «meccanismo di politica industriale» in grado di incentivare l’investimento in nuove tecnologie o una «rivoluzionaria scoperta» – e le «probabilità, in questo caso, non sono molto elevate.» Agricoltori e produttori di etanolo oggi non hanno alcun incentivo ad assumersi il rischio del passaggio a un’altra tecnologia, aggiunge. Non esiste un «provvedimento politico ponte» che aiuti a compiere la transizione. «Lo status quo non è sufficiente.»

Malgrado le aspre differenze di opinione, un po’ di terreno comune tra persone come Khosla, la cui sconfinata fiducia nell’innovazione si è alimentata dei sucessi della Silicon Valey, e i ricercatori del Midwest, il cui pragmatismo è stato forgiato dalla durezza e dalla competitività dell’economia agraria. Molti osservatori, in particolare, concordano sul fatto che in pochi anni i livelli di produzione di biocarburante si stabilizzeranno. A quel punto, qualsiasi incremento di produttività dovrà per forza derivare da una nuova tecnologia.

Ma se davvero i biocarburanti da cellulosa dovranno rimpiazzare la benzina da qui ai prossimi cinque o dieci anni, bisognerà molto presto cominciare a realizzare l’infrastruttura. Lo scorso autunno, la Range Fuels di Broomfield in Colorado ha annunciato di aver avviato, in Georgia, i lavori di quello che l’azienda definisce il primo impianto di produzione di etanolo cellulosico su scala commerciale. L’impianto della Range, che utilizzerà una tecnologia termochimica per estrarre l’etanolo dai trucioli di legno, prevede di raggiungere una capacità di 75 milioni di litri nel 2008 per arrivare alla fine a 380 milioni di litri all’anno. Nel frattempo, Mascoma ha annunciato diverse unità dimostrative, incluso un impianto in Tennessee che sarà il primo generatore di etanolo da cellulosa a utilizzare panico vergato come materia prima. Ma tutti questi impianti ricevono sussidi da parte delle autorità federali o sono il frutto di partnership con le organizzazioni per lo sviluppo economico dei singoli stati; tutta un’altra faccenda sarà riuscire a mobilitare l’investimento privato per la produzione su scala commerciale.

Anzi, precisa Colin South, presidente della Mascoma, portare a livello industriale la produttività degli impianti di etanolo cellulosico sarà una sfida enorme e rischiosa. «Quando si parla dell’etanolo da cellulosa come se si trattasse di una industria, si dipinge un ritratto poco fedele,» dice. «Sono stati realizzati alcuni impianti pilota, ma nessuno di questi è mai andato oltre questo ordine di grandezza. Dobbiamo anche dimostrare di saperli gestire nel contesto di un impianto chimico operativo.» South dichiara che la speranza, per Mascoma, è quella di avviare la costruzione di una fabbrica commerciale nel 2009, con l’obiettivo di farla funzionare a regime a inizio 2011. Ma aggiunge che la sua azienda partirà solo «quando i numeri ci sembreranno abbastanza incoraggianti.»

Il numero forse più cruciale, però, sarà il prezzo del greggio. Se questo prezzo resterà così elevato, la produzione di etanolo da cellulosa potrebbe diventare concorrenziale dal punto di vista economico molto prima. Ma sono in pochi quelli disposti a scommetterlo, men che meno gli investitori disposti a rischiare centinaia di milioni di dollari con i nuovi impianti. Molti ricordano ancora la fine degli anni Settanta, quando il governo federale riservò circa un miliardo di dollari per finanziare le ricerche sulla biomassa, per poi abbandonare tutto quando a inizio anni Ottanta i prezzi del petrolio crollarono nuovamente. E se il prezzo del barile oscillava intorno a quota 95 dollari lo scorso autunno, e i prezzi all’ingrosso della benzina si aggirano sui 2 dollari e mezzo a gallone, gli esperti in biocarburanti dicono che non si può contare su prezzi così elevati. Molti produttori di biocarburanti di nuova generazione si dicono intenzionati a essere competitivi anche con un greggio da 45 dollari al barile in modo da assicurare una continuità di lungo termine al loro mercato.

In effetti gli annunci dei futuri impianti per etanolo cellulosico tendono a oscurare la realtà di una tecnologia che non è ancora giustificabile sul piano economico. Gregory Stephanopoulos, docente di ingegneria chimica al MIT, si dice «molto ottimista» sul futuro dei biocarburanti. Ma lui stesso si affretta a precisare che ci vorranno altri dieci anni per ottimizzare i processi produttivi dei biocarburanti da cellulosa. Tra i mille problemi da risolvere, afferma, c’è il fabbisogno di microbi più capaci e versatili per l’estrazione.

In una piccola sala riunioni fuori dal suo ufficio, Stephanopoulos tira fuori carta e penna e comincia a tracciare una serie di cerchi. Immaginiamo, dice, una bioraffineria circondata dalle fonti dei diversi tipi di biomassa. L’economista collega i cerchietti a un punto centrale, tracciando i raggi di una immaginaria ruota. E se trattassimo la biomassa e la pompassimo verso le bioraffinerie sottoforma di sospensione densa? Stephanopoulos è il primo a riconoscere che una infrastruttura così ambiziosa richiederebbe anni per essere realizzata, e che l’idea solleva numerose questioni di carattere tecnico e ingegneristico. Ma per il resto dell’intervista il suo disegno rimane pazientemente sul tavolo, come uno dei tanti progetti.

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