A scuola di informazione

L’esplosione della domanda mondiale di educazione ha reso insufficienti gli strumenti classici della formazione, come la scuola e l’università. Pertanto, vanno individuati anche altri strumenti aggiuntivi ovvero utilizzare – o creare – altre istituzioni o agenzie anche con funzioni educative e di formazione. In questo caso, anche la comunicazione istituzionale può svolgere una funzione importante per aumentare il livello di democrazia e quindi di senso civico, con effetti benefici per l’intera collettività oltre che per le singole persone.

Quindi tutte le strade vanno percorse, comprese quelle attualmente più secondarie, in quanto proprio attraverso queste forse si possono raggiungere mete significative. Ci sono quindi opportunità, ma anche rischi, in quanto c’è sempre una dimensione politica nell’educazione: in tale ambito si colloca l’alfabetismo funzionale e cioè il livello di formazione che viene assicurato ai cittadini per partecipare consapevolmente alla vita sociale. Negli ultimi decenni lo stato utilizza sempre di più i messaggi pubblicitari per avere il consenso dei cittadini. Oltre all’ambiguità della comunicazione istituzionale, che rischia inevitabilmente di trasformarsi in quella politica e cioè non al servizio di tutti ma di una parte, in questa direzione vengono indirizzati investimenti economici sempre più consistenti.

Oggi le informazioni dettano l’agenda delle esistenze individuali e dell’azione degli apparati pubblici. Sono allora essenziali i modi in cui l’informazione viene gestita.

A riguardo, scrive Ignacio Ramonet: «Lo stato è diventato da qualche anno uno dei migliori clienti delle agenzie di pubblicità e gli sono riservati d’ufficio tempi di trasmissione e tariffe preferenziali. Gli spot statali passano per ultimi per meglio restare nella memoria volubile dei cittadini. Mediante questi spot, gli stati tentano di persuadere i telespettatori-cittadini che si stanno preoccupando del loro benessere, della loro salute e della loro qualità della vita. In effetti, mascherano spesso un’evidenza: in realtà (a un minor costo finanziario ma non politico), alcune decisioni potrebbero davvero prenderle. Da questo punto di vista, gli spot non propongono che ipocrisia e gli stati così confermano che viviamo davvero in una società delle apparenze». Questa tendenza sembra sempre più accentuata, anche se emerge l’impostazione di una pubblica amministrazione che, attraverso la comunicazione sociale e in parte quella istituzionale, educa i cittadini a comportamenti vantaggiosi per la collettività: non fumare, non bruciare gli alberi, guidare prudentemente e così via. Inoltre, intesa in quest’ottica, la comunicazione istituzionale può essere utilizzata anche per esaltare lo spirito critico, mettendo in pratica e attualizzando anche in questo settore le teorie dell’educazione di John Dewey. E questo diventa fondamentale nel momento in cui la comunicazione di massa, che in parte sta pesantemente condizionando il pensiero critico dei cittadini (soprattutto di quelli meno attrezzati culturalmente e quindi meno alfabetizzati), sta diventando sempre più personalizzata e interattiva, avendo, nel contempo, per la prima volta nella storia a disposizione una quantità inedita di materiale educativo, che serve sia agli educatori sia all’autoapprendimento personale. E tutto questo si riverbera inevitabilmente nella società. Com’è noto, la democrazia è un processo che mette in costante discussione le conoscenze acquisite e quindi ha necessità di formazione permanente. Pertanto, l’educazione è fondamentale per la democrazia che viene costruita anche attraverso le agenzie educative delle scuole, delle università e dei centri di formazione. Un sistema educativo che non riesce a tenere il passo con le trasformazioni sociali è destinato a decadere e quindi a non dare un supporto alla qualità della democrazia, che in questi ultimi decenni dimostra crepe sempre più evidenti e peraltro in una condizione di insostituibilità, nel senso che non vi sono alternative migliori a questo sistema. Infatti, come ricorda Sant’Agostino, «quod non progredi, regredi». Davanti all’informazione che viene fornita dal sistema educativo o anche dalle istituzioni pubbliche, il cittadino deve essere messo in condizione di verificarle, ma questo è possibile solo se avrà un bagaglio di cognizioni di base che glielo consentano. Vanno quindi posti alcuni quesiti, in relazione a una visione utile della comunicazione pubblica. Infatti, quando si parla della necessità che la comunicazione pubblica venga fruita dai cittadini in modo critico, per evitare che le informazioni condizionino le opinioni e le scelte di vita, viene posto il problema della democrazia dell’informazione. La domanda che si pone è: Chi controlla le fonti di informazione? Chi controlla che i contenuti siano effettivamente fruibili in modo critico dai cittadini? Se le fonti di informazione (i mezzi di diffusione del pensiero e delle notizie) non sono pubbliche ma private (cioè non sono democratiche), come fare in modo che non si corra il rischio di una manipolazione dei contenuti a vantaggio di pochi e a scapito dei molti? La diffusione di Internet a prima vista sembrerebbe giocare a favore di una effettiva democratizzazione dell’informazione: la moltiplicazione delle fonti e dei mezzi dovrebbe infatti essere l’antidoto contro il monopolio dell’informazione. Ma è veramente così? Infatti, se con la diffusione di Internet non si corra il rischio di una «babele dell’informazione», cioè di una moltiplicazione delle voci, dei bit, delle notizie che finisce per rendere indistinguibili le informazioni utili da quelle inutili o peggio dannose. In questo caso, si pone anche la necessità di selezionare le informazioni per individuare quelle rilevanti, evitando di farci sommergere da quelle superflue. Appunto per questo, all’interno del settore pubblico andrebbe utilizzato il metodo dell’intelligence, per fornire ai cittadini informazioni essenziali ma nello stesso complete e corrette. La maggiore forma di controllo è l’istruzione, quindi il ruolo dell’educazione e formazione è centrale, in quanto è all’origine e alla fine del processo della comunicazione istituzionale. Questa area scientifica, che viene scandita sempre di più dall’utilizzo delle nuove tecnologie (TV e Internet su tutte), va inserita nell’ambito delle discipline umanistiche. Infatti, vorrei ricordare questa risposta di un professore di Harvard a un suo studente: «Qual è il ruolo dell’arte e degli studi umanistici? Che rilievo hanno nella presente era della scienza e della tecnologia?». «My dear boy», disse il professore, capovolgendo la domanda «ma è proprio questo il motivo per cui tutta la scienza e la tecnologia sono state create e messe al servizio dell’uomo, per fargli risparmiare tempo e permettergli di godersi le humanities, cioè le gioie della cultura classica. Vorrei che questo scopo non venisse mai perso di vista». Finora c’è un ruolo largamente «passivo» che oggi sembra avere la maggior parte della comunicazione istituzionale che lascia alla capacità e alla pazienza dell’utente (cittadini e imprese) il compito di districarsi all’interno delle informazioni pubbliche e che quindi in ultima analisi è indifferente alla sua reale efficacia.

La democrazia sostanziale è quella che consente una democrazia reale e non soltanto formale, garantendo un equilibrato rapporto tra diritti e doveri, tanto più che il mancato adempimento di un dovere da parte di un ambito della società comporta inevitabilmente la mancata fruizione di diritti da parte di un’altra componente. Non a caso la comunicazione pubblica si è venuta configurando contemporaneamente come un diritto e un dovere: è un diritto per i cittadini essere informati e un dovere per la pubblica amministrazione informare. Argomenta John Ralston Saul, nel volume La civiltà inconsapevole: «Per una democrazia, ossia per un sistema in cui la legittimità risieda nei cittadini, l’esistenza di sistemi scolastici pubblici nazionali di qualità elevata per i primi 10-15 anni di istruzione costituisce una condizione vitale. Ma la realtà è che in tutto l’Occidente ci stiamo dimenticando di questo semplice principio e, così facendo, miniamo ulteriormente le basi della democrazia. Perché ci stiamo allontanando da una scuola pubblica efficiente? In teoria, a causa delle disponibilità finanziarie limitate. Ma per i settori dell’istruzione che richiamano le èlites del mondo produttivo ed economico tali condizionamenti non esistono. Man mano che si dirottano finanziamenti dall’istruzione pubblica verso le aree privilegiate dell’istruzione superiore, la qualità della scuola pubblica decade e un numero sempre maggiore di genitori opta per le scuole private. Allontanando i propri figli dalla struttura pubblica, con ciò stesso perdono interesse per il sistema. Il tema di moda è quello della qualità; e ciò significa concretamente che attraverso il sistema si destinano finanziamenti e cure maggiori alle strutture di élite. Significativamente, gli elementi di prova di cui disponiamo segnalano che produrre un’élite di livello più elevato non significa aiutare un paese. Il rinnovato interesse per la scuola pubblica, che sembra manifestarsi ai nostri giorni, punta soprattutto ad allineare l’istruzione di base alle richieste del mercato del lavoro. Questo approccio apparentemente positivo è illusorio. Concentrarsi sulla tecnologia – per esempio sull’informatica – significa sfornare diplomi destinati a diventare ben presto obsoleti. Il problema non è di conferire allo studente abilità riguardanti una tecnologia in continuo e rapido sviluppo, ma di insegnargli a pensare, di trasmettergli strumenti di analisi che gli consentano di reagire ai mille cambiamenti, anche tecnologici, che dovrà affrontare nei decenni a venire. A promuovere questo progetto di allineamento della scuola al mondo del lavoro è soprattutto la classe manageriale pubblica e privata. Ma la crisi che sta investendo società ed economia deriva in buona parte dalle dimensioni eccessive della classe manageriale, vero e proprio peso morto destinato a gravare sul resto dell’economia. I manager rivolgono l’interesse ai livelli di istruzione più elevati in quanto questi continuano a frantumare il sapere in specializzazioni sempre più limitate». Le specializzazioni accademiche diventano così un docile strumento per giustificare le scelte pubbliche e aziendali. V’è poi da notare che, nel nostro paese la scolarizzazione di massa si è verificata con circa trent’anni di ritardo rispetto ai paesi più avanzati, determinando effetti diversi sulla vita civile, sociale ed economica. In Italia, la scolarizzazione di massa è successiva all’avvento del mezzo televisivo, il che spiega anche il numero minimo dell’incidenza dei lettori rispetto all’Europa. Spiega Alessandro Cavalli che «il rapporto tra educazione e democrazia non è però soltanto un problema di quantità. è anche una questione di qualità. La scarsa capacità delle scuole di trasmettere e diffondere chiavi di lettura, con le quali conoscere e interpretare la realtà economica e sociale contemporanea, ostacola la formazione di un’opinione pubblica informata, in grado di prendere consapevolmente posizione di fronte alle grandi questioni della vita pubblica. Ed è proprio la presenza di un’opinione pubblica capace di partecipare al discorso pubblico e di influire sul processo decisionale che costituisce il cuore di una democrazia».

Viviamo in una società in cui l’acquisizione e il continuo rinnovamento delle conoscenze sono sempre più necessarie e, secondo Alain Touraine, «proprio quando la scuola ha il massimo d’influenza essa diventa sempre meno il luogo della speranza». è noto che oggi le informazioni dettano l’agenda delle esistenze individuali e dell’azione degli apparati pubblici. Sono allora essenziali i modi in cui l’informazione viene gestita e resa fruibile, al fine di generare conoscenza e quindi aumentare il livello della democrazia. La libertà di accesso all’informazione è dunque strettamente collegata alla cittadinanza e diventa un diritto universale. Infatti, anche attraverso l’uso delle tecnologie, si conferma la divisione tra gli haves e haves not e cioè tra chi ha strumenti per accedere alle informazioni e che invece ne è privato.

Diventa allora importante fare in modo che i cittadini siano messi in condizione non solo e non tanto di utilizzare le informazioni e le nuove tecnologie, ma soprattutto di saper utilizzare criticamente le informazioni che il settore pubblico produce. Ci sembra, questo, un problema di democrazia sostanziale per una società più consapevole e quindi meno esposta ai rischi della manipolazione mediatica e del fondamentalismo religioso.

Mario Caligiuri è docente di comunicazione pubblica all’Università della Calabria.

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