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Da Democrito agli scienziati del terzo millennio

Sto studiando il latino o, più precisamente, ristudiandolo, perché durante gli anni del liceo in Inghilterra l’insegnamento di questa lingua è stato episodico. Mi sottopongo a esercizi estenuanti perché mi ricordo che i nostri insegnanti sostenevano che il latino rende la mente agile, ricettiva e acuta; la mia speranza è che, memorizzando le infinite coniugazioni e declinazioni e approfondendo la severa sintassi di questa lingua, la mia mente mantenga la plasticità dei miei 40 anni.

Comunque, per il lavoro che svolgo quotidianamente per “Technology Review”, ciò che mi ha colpito di più della letteratura latina è quanto poco i Romani si occupassero di philosophia naturalis, o filosofia naturale, vale a dire il filone di pensiero precursore delle moderne scienze naturali. Si preoccupavano,in realtà, un poco di più di tecnologia, in particolare del settore dell’ingegneria civile, e solo in quanto strumento di governo. L’aristocrazia romana era interessata soprattutto all’amministrazione, alle leggi, alle conquiste e alla retorica. Verso la scienza e la tecnologia mostrava un evidente disinteresse.

Le tecnologie che sfruttavano erano perfezionamenti e espansioni delle invenzioni greche. Anche i loro imponenti edifici pubblici differivano solo per la grandezza dai modelli dell’oriente di lingua greca a cui facevano riferimento. In campo scientifico i romani erano ancora più in debito nei confronti della civiltà greca. L’atomismo proposto dal poeta epicureiano Lucrezio nel De Rerum Natura deriva dal pensiero dei filosofi greci presocratici, che avevano teorizzato che l’universo fosse composto da piccolissimi granelli indivisibili.

Quindi, nel senso stretto di intuire l’esistenza di particelle elementari, si può affermare che i greci hanno inventato la fisica delle particelle. In un articolo pubblicato da “Technology Review” nel novembre 1939 Philip M. Morse, professore di fisica del MIT,scriveva: “Questa idea della materia composta di atomi elementari indivisibili sembra aver avuto inizio da Democrito”.

Ma ciò che Democrito aveva intuito, e i romani riproposto, non ha avuto alcuna verifica fino a poco tempo fa. Morse attendeva con impazienza la conferma, attraverso gli esperimenti, dell’esistenza di particelle elementari più piccole delle parti di atomo allora note ai chimici: i protoni e i neutroni, che si trovano nel nucleo dell’atomo, e gli elettroni, che si collocano nell’anello esterno al nucleo.

Trent’anni dopo, Jerome Friedman, ora Institute Professor al MIT (e membro del comitato direttivo di “Technology Review”, edizione americana), ha dimostrato che i protoni e i neuroni non sono particelle elementari, ma sono in realtà composti, almeno secondo il fisico Murray Gell-Mann, dai cosiddetti “quark”, allora del tutto teorici (i quark compaiono dopo il pianto dei gabbiani nel Finnegans Wake di James Joyce). Dal 1967 al 1975 Friedman, Henry Kendall e Richard Taylor hanno studiato i protoni e i neutroni con l’Acceleratore Lineare della Stanford University, una struttura lunga poco più di 3 km e 200 metri, scagliando gli elettroni a velocità spaventose contro bersagli al deuterio o all’idrogeno. Gli scienziati hanno scoperto che in queste condizioni estreme, i protoni e i neutroni, invece di conservare la loro identità di base, mettono in mostra particelle più piccole (un fenomeno che i fisici chiamano “diffusione inelastica profonda”). Per questo lavoro, hanno vinto il premio Nobel nel 1990.

Jerry Friedman descrive un nuovo e molto più potente acceleratore di particelle. Egli spiega come il Large Hadron Collider (LHC), che è stato costruito all’interno di un tunnel sotterraneo lungo 27 km al confine tra Francia e Svizzera, farà scontrare tra loro fasci di protoni la cui energia raggiunge i 7 miliardi di elettronvolt all’interno dei 27 km dell’anello dei magneti superconduttori. Friedman definisce questa enorme macchina “il più ambizioso apparecchio scientifico” del mondo.

Uno dei più importanti rivelatori dell’acceleratore di particelle, costato complessivamente oltre 6 miliardi di dollari, si chiama Atlas: è alto sette piani e pesa più di 100.747 jet. Un altro rivelatore, il CMS, pesa una volta e mezzo la Torre Eiffel. Gli scienziati sperano di utilizzare queste apparecchiature, e altre simili, per studiare fenomeni su una scala di un decimiliardesimo di un atomo e completare in tal modo il modello standard della fisica delle particelle. In particolare, vogliono verificare l’esistenza di una particella teorica chiamata bosone di Higgs, che si ritiene generi la massa nell’universo.

Gli acceleratori di particelle come il LHC e il precedente acceleratore lineare di Stanford sono tra le più affascinanti macchine che l’uomo abbia mai costruito, perché sono incredibilmente complesse e hanno l’unico scopo di scoprire la natura fondamentale dell’universo. Gli scienziati che fanno uso di queste tecnologie, come Jerry Friedman, si possono annoverare tra le menti più creative della nostra specie.