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    A minore ragione

    Perché di tecnologia si può morire, ma si vive comunque

    di Gian Piero Jacobelli

    Come esseri razionali, non abbiamo altra scelta che percorrere la strada che la conoscenza ha aperto davanti a noi: l’affermazione di Roger Scruton, che si legge nelle pagine precedenti, appare tanto vigorosa quanto convincente. Vigorosa, perché si basa su un principio determinato e determinante: quello della razionalità. Convincente, perché, dato quel principio, ne trae l’unica conclusione possibile. Se la razionalità è ciò che ci caratterizza in quanto esseri umani rispetto ad altri esseri che umani non sono in quanto non sono, o non sarebbero, razionali, quello di perseguire comportamenti razionali non può non costituire l’obiettivo e l’imperativo categorico della nostra specie.

    Purtroppo le cose non stanno, non sono mai state, in maniera così semplice e lineare. Si potrebbe obiettare, infatti, che la razionalità non esaurisce l’orizzonte delle miotivazioni che guidano gli esseri umani, i quali spesso mostrano di comportarsi in maniera non razionale. Per altro, Scruton, che anche così si dimostra filosofo di vaglia, rifiuta ogni pregiudiziale manichea, l’idea che qualcosa possa essere razionale e qualcosa possa non esserlo, per ricomprendere nella razionalità anche il suo contrario. La razionalità, infatti, non costituisce un modo di pensare, ma un modo di agire, nella quale confluiscono tutte le diverse istanze, logiche ed emotive, di cui l’azione di sostanzia e in cui si determina: Libertà razionale significa capacità di agire in base a decisioni consapevoli, dopo avere valutato razionalmente le diverse opzioni.

    In questa prospettiva sembrano perdere di senso le più convenzionali preoccupazioni nei confronti della tecnologia e dei danni che potrebbe apportare all’uomo e alla sua libertà. Il riferimento concerne soprattuto la manipolazione genetica che, secondo Scruton, viene sempre più spesso considerata come il pericolo maggiore per l’umanità, anche se non ci rendiamo conto di quanto l’uomo abbia da sempre collaborato alla propria creazione. La cosiddetta selezione culturale, quella in ragione della quale si scelgono i propri partners sulla base dei modelli prevalenti di gradimento, ha sempre condizionato l’evoluzione umana, privilegando questa o quella caratteristica, attitudine, capacità. Se è vero, come suggeriva il titolo di una famosa pellicola cinematografica, che agli uomini piacciono le bionde, ne consegue che nasceranno più bionde che brune. Ma è anche vero che ci si possono tingere i capelli, alterando così le condizioni della scelta e che ancora una volta l’astuzia della ragione finisce per ripristinare un margine di libertà contro la violenza della ragione.

    Su questo margine di libertà Scruton fonda la sua fiducia nei confronti della razionalità scientifica, anche se ne resta piuttosto ambigua la costituzione epistemologica. Non è chiaro se questo margine di libertà derivi da un completo e coerente spiegamento della razionalità stessa che, proprio per la sua incessante sollecitazione a ricercare, non potrebbe non fermarsi di fronte al rischio di improvvide determinazioni che possano chiudere il discorso invece di mantenerlo programmaticamente aperto: ed è ciò che Scurton chiama responsabilità, verso se stessi e verso gli altri. Ovvero se questo margine di libertà derivi dalla complessità insita nella razionalità stessa, dalla commistione di tanti fattori che, anche volendo, renderebbero impossibile una saturazione del campo conoscitivo ed operativo, lascerebbero sempre fuori qualcosa che finirebbe per fare emergere la classica eteronomia dei fini. In questo caso dovremmo compiacerci piuttosto di non sapere qualcosa che di sapere tutto e magari considerare il teorema di Gödel come il presidio più affidabile contro ogni tentativo di progettare un mondo senza alternative e quindi senza libertà.

    Si tratta di un dilemma che ha attraversato l’intera storia della filosofia e che non caso nel Novecento, il secolo della scienza e della tecnologia, ha trovato momenti particolarmente drammatici e sintomatici. Proprio mentre riflettevamo sul dilemma di Scruton, il caso ancora una volta ci ha fornito, se non una risposta, quanto meno un quadro sinottico e autorevole delle possibili maniere di argomentarlo. Il caso, nella veste della pagina di un giornale, il supplemento culturale del Sole 24 Ore, che domenica 10 giugno dedicava la pagina di Scienza e Filosofia a due autori la cui apparente diversità, nella occasionale giustapposizione, ha finito per diventare rivelatrice di più profonde e comunque suggestive affinità: Ludwig Wittgenstein e Baruch Spinoza.

    Quanto al primo, che passa per essere stato se non il più grande certo il più intrigante e sconcertante filosofo del Novecento, Aldo Massarenti, presentandone una nuova antologia all’insegna de Il gioco dei due Wittgenstein, si ingegnava a rimuovere quanto di radicale, di irriducibile se non di conflittuale alberga in quella apparente alternativa filosofica. Se nel Tractatus, il filosofo austriaco si era impegnato a individuare il valore di verità implicito nel nostro linguaggio, concetto assoluto al quale corrispondeva un concetto altrettanto assoluto, quello della realtà, nelle successive Ricerche, che lo accompagnarono inedite fino alla morte, il quadro sembrerebbe cambiare sostanzialmente: da una dimensione referenziale, il linguaggio e la realtà, appunto, a una dimensione relazionale, i concreti giochi linguistici che nelle diverse circostanze ciascuno di noi intavola, stipula ed esercita con ciascuno degli altri.

    Ma, sottolinea Massarenti, tra le due impostazioni, tra il primo e il secondo Wittgenstein, resta comunque una certa aria di famiglia, e forse anche qualcosa di più: costante è l’atteggiamento critico e antimetafisico. In altre parole, per Wittgenstein non c’era un modo di fare sul serio e un modo di fare per gioco. C’era, se mai, un modo per sottrarsi a questa micidiale e nefasta contrapposizione, un modo, filosofico, per convincerci che, quali siano le regole del gioco, siamo noi stessi a darcele nell’ambito delle nostre attività relazionali e comunicative. Una buona ragione sarebbe dunque quella che privilegia una ragione minore, locale e negoziale, rispetto a una ragione maggiore, globale, ma ideologicamente pretenziosa e imperialistica.

    Demistificare il mistero: questo è l’obiettivo della filosofia, non perché si possa sapere tutto, anzi proprio perché non si può sapere tutto, ma perché il non sapere tutto fa parte del sapere, non configura nessuna realtà oltre quella che ci è dato conoscere. L’unità del sapere, la sola da cui si poossa dedurre un principio etico nei termini kantiani del conosci in modo tale da essere in grado di continuare a conoscere, ritornava nella stessa pagina del supplemento culturale del Sole 24 Ore a proposito di un altro filosofo che per troppo tempo è stato inscritto tra quanti aspiravano a una verità assoluta, ma che da qualche tempo è stato restituito al vitale contesto della umana convivenza. Predicando l’unità della sostanza e una conoscenza di grado superiore, che quella unità avrebbe dovuto tematizzare e conseguire, Spinoza non voleva dire che tutto si potesse sapere, ma che tutto si volesse sapere, anche se questo sapere resta inevitabilmente condizionato dai saperi degli altri, convergenti o concorrenti.

    Contrapponendola alla paradossale convinzione di Leibniz che il nostro sia il migliore dei mondi possibili, in quanto il male non sarebbe, come per Spinoza, relativo, ma apparente, Remo Bodei così ristabilisce il senso e il valore della confusione spinoziana: Nessun ente per Spinoza è isolato dal resto della natura, nessun uomo è un impero in un impero: tutti partecipiamo delle vicende del mondo, subendone le forze che vi agiscono e reagendo a esse più o meno adeguatamente. L’etica di Spinoza non insegna tuttavia una fatalistica e passiva accettazione della forza delle cose, bensì la ricerca della saggezza e della libertà in quanto coscienza della necessità. Di quella necessità che, come osservava Scruton, ci fa essere necessariamente uomini, proprio perché nessun modo di essere esclude programmaticamente la possibilità di essere in un altro modo o anche di non essere.

    Una idea, o forse sarebbe meglio dire una istanza, quest’ultima, che per fortuna ha continuato a perpetuarsi e a germinare all’interno della filosofia occidentale anche là dove la fiducia nella conoscenza, che significa socraticamente sapere di non sapere, è sembrata confluire nella fiducia nella scienza, che al contrario esprime un sapere costituito con tutte le sue inevitabili rigidità e preclusioni.

    Nello scorso mese di giugno è scomparso Richard Rorty, un grande filosofo americano al quale dobbiamo una delle critiche più serrate, proprio perché più concilianti, delle pretese fondative delle filosofia. Come ha ricordato Franco Volpi, su la Repubblica, Rorty ha sviluppato una critica radicale del mentalismo della filoosfia moderna, ovvero della convinzione che la mente sia lo specchio della natura e il fondamento incontrovertibile del conoscere. Al contrario, di fronte alla contingenza che caratterizza il nostro essere nel mondo e nella storia, anzi che ci consente di essere nel mondo e nella storia, Rorty raccomandava due atteggiamenti: quello dell’ironia, che tiene a distanza ogni pretesa di assolutezza conoscitiva, e quello della solidarietà, che favorisce la convivenza tra gli uomini. Non ironia o solidarietà, ma ironia e solidarietà, perché è proprio la concomitanza di questi due stati d’animo che allontana il rischio di universalizzare qualsiasi concezione di uomo in generale, nella quale il discorso della differenza si rinchiuderebbe in una ripetizione irriducibile e interminabile.

    Rorty si riferisce sempre all’incontro reale, con chiunque in quel dato momento e in quel dato luogo noi riconosciamo come un potenziale interlocuotore, senza doverci chiedere se appartenga alla nostra stessa comunità, alla nostra stessa cultura, o persino alla nostra stessa specie. In questa prospettiva, in cui gli uomini sono molto meno uguali di quello che dicono e molto più di quello che pensano, si può comprendere, per tornare all’inizio, perché Scruton ritenga che non ci si debba preoccupare troppo della tecnologia: perché se cercheremo di fare qualcosa uguale a noi stessi, lo faremo necessariamente diverso. Un paradosso che, tuttavia, non ci solleva dalla responsabilità del fare, ma che anzi questa responsabilità riscopre in ogni situazione relazionale, in cui o si fa con l’altro o si fa senza l’altro. Senza l’altro, non si può che rifare qualcosa di già fatto; con l’altro, al contrario, bisogna darsi da fare, facendo ex novo.

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