Formazione professionale e/o vocazione

Alberto Abruzzese, studioso di riferimento per quanti non si sentono assuefatti al presente e membro del Comitato scientifico di MIT Technology Review Italia, da tempo riflette con suggestiva radicalità sulla situazione della università, soprattutto in Italia, e su come sia possibile sottrarla alle sue progressive sclerotizzazioni culturali e corporative.

di Alberto Abruzzese

La condizione attuale del rapporto tra formazione professionale e vocazione va cercata in ogni agenzia di socializzazione: dalla famiglia alla informazione, dal tempo di lavoro e al tempo libero, ma soprattutto negli apparati e dispositivi della scuola e dell’università. Proprio là dove le vocazioni sembrano essersi spente, in quanto si tratta di apparati istituzionali che da decenni sono privi di effettive riforme. Istituzioni vecchie ormai di un secolo, esse sono e saranno causa della lunga durata di un clamoroso vuoto di innovazioni di sostanza, di contenuto, proprio in un’epoca di clamorosi sviluppi tecno-scientifici.

Una situazione critica, dunque. Vocazioni allo sbando, inchiodate alle funzioni che le furono assegnate ai tempi della modernità industriale. Professioni anch’esse allo sbando, abbandonate alla sopravvivenza inerziale dei loro consunti valori di riferimento, tanto quanto abbandonate alla crescita esponenziale dei nuovi mezzi tecnologici: nuove tecnologie impegnate a imporre saperi, pratiche e mansioni sconosciute per chi è stato formato in vista di pratiche e mansioni rapidamente già rottamate.

Queste nuove tecnologie appaiono sempre più impegnate nell’automazione del lavoro fisico e intellettuale, sino a fornire alla produzione di beni materiali e immateriali veri e propri sostituti meccanici dei professionisti in carne ed ossa: lavoratori per i quali l’abilità dipende da algoritmi e non più da una pregressa educazione alla socialità del fare. Un simile tipo di sviluppo tecnologico elimina di fatto ogni copertura e rivendicazione etica dello sfruttamento del lavoro umano. Dunque manda in soffitta ogni politica di classe e riabilita le vecchie politiche di popolo. Comunica la vita dei consumi e non la morte in fabbrica.

Cosa è per me la vocazione e cosa la professione? Vocazione è sentirsi chiamati da dentro di sé; sentirsi chiamati non da un “fuori di sé”, non dall’esterno di una divinità oppure di una società che la incarni in terra, facendosene scudo e spada. Di una autorità da condividere solo in quanto si è gettati nelle sue forme di dominio. La professione riguarda invece ciò che la società – l’ambiente in cui vivo, il conflitto di interessi in cui mi accade di vivere – chiede alla mia persona di “sapere fare” in termini di tecnicalità necessarie all’abitare, alle sue diverse misure etiche, estetiche e politiche.

In quanto necessità di sopravvivenza del vivente è la tecnica a vincolare tra loro vocazione e professione. La vita per me e la vita per l’altro da me. È la tecnica l’unica sponda, la sola differenza, l’unico bene comune, che può garantire la vocazione di una persona dentro la corazza delle professioni.

Si fa allora necessaria per la persona una verità che possa essere da se stessa ritenuta certa e inemendabile, valida per la sfera pubblica in quanto valida per la sfera privata. Questa verità è minima e massima al tempo stesso e consiste nella certezza del dolore psicofisico della propria carne: del dolore che il proprio corpo arreca alla sua carne e alla carne di ogni altro corpo.

Il tempo presente sta svelando la condizione di schiavitù – di dipendenza tossica – in cui la vocazione personale ha vissuto i regimi professionali della civiltà moderna. La sua grandezza, la sua misura imperiale, è consistita nel fare aderire la sofferenza della carne dei singoli alla sovranità dei corpi sociali. Il suo declino occidentale consiste nel pretendere di fare soffrire i propri sudditi senza offrire più nulla in cambio. Nessun manto che copra la verità della sofferenza umana e insieme la verità delle forme di potere.

Il nodo che mi interessa discutere è la perdita della vocazione personale a fronte dello sviluppo tecno-scientifico: la situazione presente (un presente ancora esasperatamente occidentale, con vaste sacche di passato-futuro in difficoltà di occidentalizzazione oppure di de-occidentalizzazione) è quella di una formazione professionale che procede con la pretesa di risolvere la forma sempre più statica, endemica, delle proprie crisi di sviluppo utilizzando una idea di vocazione professionale tramontata con il tramonto stesso della modernità e dei suoi “classici” dispositivi di governo (etici, estetici e politici).

La complicità tra la vocazione della persona e la sua partecipazione sociale ha perduto le forti strutture di sostegno su cui ha potuto funzionare lungo i tempi lunghi della modernizzazione. Avere una vocazione significava avere un ruolo, godere di un ruolo, ma nel senso di essere chiamati in quanto eletti dal potere. Era impensabile e inesperibile che una vocazione potesse nascere dall’esterno di questa “sceneggiatura”. Tuttavia sono stati gli stessi processi di socializzazione ad aprire sempre più i cancelli della democrazia e della cittadinanza così da illudere gli inclusi facendo credere loro di essere vocati invece che convocati. Convocati dall’istruzione del sistema.

La condizione attuale delle pulsioni di sopravvivenza dei regimi sapienziali e dei regimi istituzionali si esprime attraverso il combinato disposto della dilazione e insieme della delazione. Dilazione da parte del pensiero e delazione da parte del potere. Il pensiero (la cultura nelle sue varie forme: scuola e università, ceti intellettuali, strategie simboliche dei consumi, arti, fiction, intrattenimento e ambiente) dilaziona sempre di nuovo la scelta (de-cisione, rottura) di trovare una risposta adeguata alla catastrofe umana delle inumane strategie finanziarie, alla crisi permanente e non ciclica che, nel gioco finanziario, si produce come dolore, disperazione e morte per la persona e per i mondi viventi ad essa connessi.

Sempre più in difficoltà riguardo ai suoi strumenti di governo sulla complessità dei conflitti sociali, il potere radicalizza a sua volta l’espediente della delazione scaricando le proprie colpe su capri espiatori di volta in volta accusati di essere la causa dei suoi fallimenti.

Anche quando le varie voci istituzionali o para-istituzionali, di contestazione o alternativa, arrivino a identificare tali fallimenti nella crisi dei ceti dirigenti di fronte alla crescente complessità dei conflitti, si tratta di critiche che non toccano il punto cruciale della questione: paradossalmente si arriva a sostenere che il crollo di capacità professionali sia dovuto al fatto di avere abbandonato i valori che invece proprio di tale crollo sono stati la causa. Perciò sostengo che la vera questione da affrontare è il fallimento dell’umanesimo in quanto spina dorsale dello sviluppo occidentale.

Si può leggere di più sulla visione destruens e construens del metodo baconiano di Alberto Abruzzese nel suo blog La grande Scimmia.

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